Toni Servillo all’Università di Salerno

La rassegna cinematografica Filmidea ha dato il via al programma di appuntamenti del 2008 ospitando l’attore Toni Servillo nell’Aula delle Lauree dell’Università di Salerno il 10 gennaio. Una vera e propria lezione-dibattito in cui, fra domande e risposte, è stata sviscerata la natura del Servillo attore, in riferimento soprattutto al dualismo fra teatro e cinema. Un istrionico cantante rotto alle esperienze della vita, un algido uomo in fuga dal passato e che mette tutto in gioco per amore, un investigatore immerso nelle sue indagini ma lontano dalla famiglia, un camorrista che tenta di rinnovare il ruolo del clan: l’interprete partenopeo ha duttilmente prestato volto, corpo e voce a numerosi personaggi cinematografici. Ma le scarpe più comode le indossa sulle assi del teatro, l’arte che lo ha visto esordire sulle scene già ai tempi del liceo. E al massimo teatro di Salerno, Servillo è stato impegnato per oltre una settimana con la messa in scena della Trilogia della Villeggiatura, commedia goldoniana in cui figura alla regia e nel ruolo dello scroccone Ferdinando.
Il suo approccio con il pubblico studentesco si è mosso lungo una personale “captatio benevolentie”, svelando che “… Numerosi professori che oggi insegnano a Salerno sono stati importanti per la mia prima formazione artistica”. Subito la questione che ha connotato la maggior parte delle parole di Servillo, il rapporto fra teatro e cinema. L’artista napoletano ha mosso i primi passi sulle scene da ragazzo, con le prime leve teatrali. Già questo primo imprinting con l’arte dell’interpretazione ha segnato la sua futura carriera. Ma ha sottolineato anche come molti attori del cinema nostrano, pensando a Mastroianni, Gassman, Sordi o Totò, avessero iniziato con il teatro o il varietà, per poi venire “adottati” dal cinema. Una tendenza che è stata ripresa grazie a giovani registi quali Soldini, Sorrentino, Martone o Garrone, che per le loro opere scelgono spesso professionisti del teatro. Più volte ha affermato che “Un attore moderno non può essere completo senza l’esperienza diretta col pubblico che dà il teatro”, un rapporto che si rinnova ogni sera e che ad ogni replica si arricchisce di nuove sollecitazioni. Ha poi fugato ogni dubbio sulla sua preferenza del teatro sul cinema, citando quanto era solito dire in proposito l’attore francese Louis Jouvet “Provate a chiedere ad un pesce se si trova più a suo agio in un acquario o in aperta campagna…”.
E’ il rapporto più intimo che si vive con il personaggio interpretato, la peculiarità che Servillo apprezza maggiormente ponendo a confronto queste arti. Ha confidato come si debba vivere con “un’altra persona” per diversi mesi, portandosela dietro anche nel mondo reale arrivando, durante i periodi di messa in scena, ad un vicendevole scambio in cui l’attore dà vita al personaggio, ed il personaggio accresce le qualità espressive dell’attore. Al cinema, invece, questa intimità è continuamente “violentata” dai ritmi imposti dalla produzione, dalla frammentazione delle riprese, dei luoghi, dai vincoli imposti dai costi. Così, il teatro soltanto diviene quel luogo unico dove può nascere la figura descritta nella storia, dove gli spettatori accettano un patto finzionale che li coinvolge più da vicino nella rappresentazione. Lì può crearsi un triangolo virtuoso che lega attore, pubblico ed esperienza comune. Sulla base di questo speciale rapporto, ci sono tecniche di approccio al ruolo che aumentano la distanza fra cinema e teatro, ma che possono dare il massimo se combinate e padroneggiate da un arista della recitazione. Proprio per questo, Servillo ha detto di rifiutare l’ideologia delle “prove blindate”, perché il rapporto con chi ascolta e vede non dovrebbe mai essere interrotto, in quanto è la parte più ricca di questa professione.
Ma non sono tutte rose e fiori nel mestiere del teatrante. “La vita dell’attore è fatta di molte rinunce e sacrifici”, ha ammesso. “Le repliche ogni sera sono dure, c’è bisogno di molta disciplina e, soprattutto, di una salute di ferro”, ha proseguito con una chiusura ironica. Sulla stessa falsariga, ha confidato quanto la vita privata di un attore venga ad assottigliarsi progressivamente, tanto da fargli “scoraggiare sempre chi vuole intraprendere questa carriera con l’idea del successo facile”. Per far ardere il “fuoco della recitazione”, non c’è bisogno soltanto di buone scuole, ma soprattutto di buone persone che sappiano condividere, con chi apprende, le proprie sapienze.
Spazio quindi anche al Servillo cinematografico, con un rapido accenno al suo ultimo lavoro con Sorrentino in un film su Giulio Andreotti dal titolo Il Divo. “Non sarà una biografia”, ha precisato parlando della pellicola in lavorazione che si concentrerà solo su un periodo ristretto a cavallo fra prima e seconda Repubblica, dal ’91 al ’96. A proposito della suo modo di recitare, Servillo ha spiegato che cerca sempre di “scomparire” dietro al personaggio senza lasciare la “firma”. Nel caso di Andreotti, persona reale ed attuale, è un atteggiamento quanto mai necessario perché non ci può essere spazio per l’interpretazione. In questa occasione, partendo sempre da una rappresentazione più fedele possibile dell’originale, è andato alla ricerca dell’aspetto simbolico di un uomo inscindibilmente legato al potere.
Uno studente ha poi chiesto se i protagonisti delle storie da lui impersonati gli avessero lasciato qualcosa. Qui l’ospite ha spiazzato la platea affermando che dopo un film non porta nulla dentro di sé, evitando spesso anche di rivedere al cinema il proprio lavoro. “Quando ero piccolo”, ha proseguito “leggevo le interviste degli attori famosi e pensavo che fossero un po’ snob. Poi, trovandomi a fare questo mestiere, anche se in piccole produzioni italiane, mi sono accorto di quanto fosse vero… L’esperienza delle riprese ha sempre avuto un impatto molto forte su di me e nutro spesso l’esigenza di fuggire dalla sensazione di già visto che avrei nel riavvicinarmi ad un film dopo averlo realizzato da poco.”
A chiusura dell’incontro, Servillo ha omaggiato la propria città, affermando l’“opportunità” maggiore nella recitazione che comporta l’essere di Napoli. La lingua, la gestualità, il vissuto intrecciato nella città cumana sono caratteristiche che arricchiscono la componente giocosa, il “play” o il “jouer” del mestiere dell’attore.
