Venezia 71 - Tsili
Un cinema estremo quello di Amos Gitai che conferma, pellicola dopo pellicola, un approccio visivo personale e controtendenza: indipendente, intransigente, a tratti ai limiti della sostenibilità (in senso di pregio). Questo piccolo grande film, Tsili, fuori concorso qui a Venezia 71, prosegue un discorso narrativo puro e maturo che ha radici lontane nelle prime opere della sua cinematografia.
In questo caso si tratta di una trasposizione cinematografica di un’opera letteraria di Aharon Appelfeld sull’olocausto.
I titoli di testa, avvolti da un violino violento e straziante, sono stupendamente fotografati in un ambiente tutto nero in cui una esile danzatrice in leggero abito bianco compie una danza che è volo, favola, farfalla, anima.
Il film è quasi interamente suddiviso in quadri fissi intervallati da fondue a nero. Sotto un tappeto sonoro di guerra, bombe, raid aerei militari, vediamo una giovane ragazza dai lunghi capelli ricci e dal naso prominente procacciarsi come un animaletto affamato cibo tra le frondedi una campagna assolutamente vuota. La cornice dell’immagine è ferma, larga, comprendente paesaggio, alberi, cielo. La giovane dall’abilità scimmiesca si nutre di bacche, spolpa fogliame, taglia rami per costruire un nido. È un uccellino spaurito che ha perso la voce, la paura, la famiglia.
Viene scovata da un uomo buono, ebreo come lei, che la interroga sul suo stato di solitudine e di fuga. Lei risponde monosillabica, le parole hanno perso senso e significato, oltre la sopravvivenza quotidiana. Fondue a nero. Ancora sottofondo di bombe, di angoscia, di lutti avvenuti e imminenti. La confidenza aumenta tra i due ma lei è cambiata, ha un altro viso, è più giovane e più bionda, all’inizio lo respinge sessualmente, gradualmente si attaccano reciprocamente l’uno alla vita dell’altra. Il nido si allarga, piove su di loro come in un giudizio universale ma loro sono insieme, restano insieme.
Una immagine onirica a picco dall’alto unisce i tre personaggi, le due Tsili (interpretate da Sara Adler e Lea Koenig) e Marek (Meshi Olinski), due di loro allacciati in un abbraccio procreativo e l’altra accudente come una Madonna protettiva, dipinti come in un Tondo Doni.
La necessità di procacciarsi cibo li separa. Tsili non torna indietro. Incrocia un gruppo di sopravvissuti dei campi e continua con loro. Un violinista strazia con le sue note (le medesime dei titoli di testa) in primo piano mentre dietro di lui, giù per il sentiero, scendono i sopravvissuti.
Il gruppo di persone trova riparo in un capannone attrezzato ad ospedale. Lì ascoltiamo fuori campo una voce femminile matura, Tsili diventata donna adulta, raccontare il momento in cui la sua famiglia è stata catturata e lei è rimasta sola. Da una battuta di un uomo sprezzante che dichiara di essere un codardo e di non avere più paura della vita e nemmeno della morte, scopriamo il ventre gravido della protagonista.
Immagini in bianco e nero di repertorio piene di bambini sorridenti e salvi scaldano un cuore di spettatore emozionato e coinvolto. Un uso della musica per una volta veramente innovativo e sorprendente. Bravo Amos!
(Tsili); Regia: Amos Gitai; sceneggiatura: Amos Gitai, Marie-Jose Sanselme; fotografia: Giora Bejach; montaggio: Yuval Orr, Isabelle Ingold; musica: Amit Poznanusky, Alexej Kochetkov;interpreti: Sara Adler, Meshi Olinski, Lea Koenig; produzione: Laurent Truchot, Yurj Krestinskly; distribuzione: Microcinema; origine: Israele, Russia, Italia, Francia, 2014; durata: 88’