Venezia 66: uno schiaffo alla crisi (del cinema italiano)

Come il Leone alato che la rappresenta, la Mostra del Cinema di Venezia torna a far sentire il suo ruggito e a volare alto. Venezia 66 non è certamente stata un’edizione indimenticabile, né può essere annoverata come una delle migliori della gestione Marco Muller (2006 e 2007, messe da parte le scelte delle giurie, rimangono ancora inarrivabili), eppure in dodici giorni di festival abbiamo visto grande arte, cinema di qualità, autori internazionali, esordienti di spessore.
Le aspettative erano tante per quest’anno. Dopo l’ultima fiacca e polemica edizione, era giusto aspettarsi una ripresa, un innalzamento di livello, un ritorno agli standard di un importante festival internazionale. E fortunatamente così è stato. Da molti punti di vista.
Venezia 66 non è stata la Mostra della crisi così come è stato invece l’ultimo festival di Cannes. Anzi, è stata l’edizione della rinascita. Una rinascita per la Mostra in sé, che ha presentato un concorso di alto livello qualitativo; una rinascita per le strutture della manifestazione che, dominate ora dall’enorme cantiere del nuovo palazzo del cinema, iniziano a rinnovarsi nel segno dell’arte e della sontuosa architettura; una rinascita per il cinema italiano che, grazie a sorprendenti opere prime (e non solo), sta segnando il suo nuovo corso, indirizzandosi verso una dimensione più internazionale.
La Mostra è ripartita, dunque. E lo ha fatto spinta anche dal regista più amato dal Leone d’Oro negli ultimi anni: Ang Lee. Il suo nome, legato a due premi molto contestati (ricordiamo i Leoni per Brokeback Mountain e Lust, Caution) e di conseguenza a delle edizioni incapaci di osare e di pronunciare verdetti coraggiosi, rimarrà strettamente associato anche alla kermesse del 2009. Presidente della giuria, l’autore taiwanese non si è fatto ipnotizzare dai grandi nomi e dai richiami mediatici. Ha aperto lo sguardo a tutto l’universo cinematografico del concorso, ha guardato ai giovani, alle cinematografie in crescita. Come sempre alcune scelte possono considerarsi discutibili e molti sono usciti scontenti dalla competizione, ma impossibile non comprendere le ragioni che hanno spinto la giuria a selezionare questi vincitori.
Molti i film che meritavano, eppure non poteva che vincere Lebanon. Un Leone d’Oro, quello assegnato al regista Samuel Maoz che non ha alcun valore politico, ma che si presenta semplicemente come il giusto riconoscimento per l’opera più sconcertante e avvincente del concorso: un premio che, inoltre, rimarca finalmente la straordinaria vitalità e forza del nuovo cinema israeliano.
Dal sapore più politico-sociale è invece il Leone d’Argento a Women without Men dell’iraniana di Shirin Neshat ma, nonostante il film ci abbia emozionato ma non convinto fino in fondo, per una volta comprendiamo la decisione della giuria, perché mai come oggi è giusto mettere in risalto le problematiche poste in esame dall’opera (l’inconcepibile condizione della donna in Iran).
Ma se i due riconoscimenti più prestigiosi sono andati a pellicole scioccanti e dalle tematiche struggenti, il Premio della Giuria giunge nelle mani di Fatih Akin, autore dell’irresistibile Soul Kitchen. Se la memoria non ci inganna, era da tempo che una commedia non si portava a casa un riconoscimento così importante, ed è per questo che esso rappresenta un altro forte segnale lanciato dalla Mostra: un ampliamento di sguardo, di orizzonti, un’apertura al genere, anche se rivisto e corretto. Un premio davvero atipico per un festival internazionale come quello di Venezia. Atipico quanto meritato, però.
Concludendo il discorso sul “palmares”, bisogna sottolineare l’esclusione per il commovente e riflessivo Lourdes, per l’irrefrenabile Michael Moore, per il poetico Brillante Mendoza, per la perfetta costruzione scenica di Herzog, usciti tutti a mani vuote da un concorso in cui comunque sono risultati veri protagonisti. Solondz, invece, dato tra i favoriti fino all’ultimo minuto, è stato accontentato con l’Osella per la sceneggiatura per il suo Life during Wartime, mentre il film che più ha diviso la critica Mr. Nobody di Van Dormael è riuscito a farsi strada nella lista finale dei vincitori, portandosi a casa l’Osella per la scenografia, effettivamente eccellente.
Infine se la Coppa Volpi a Colin Firth era inevitabile, poiché la sua perfomance in A Single Man punta dritto al cuore, risultano alquanto contestabili gli altri due premi consegnati per le interpretazioni. La Rappoport è senza dubbio notevole in La doppia ora, ma la Coppa Volpi sembra più che altro un contentino per lo splendido film di Capotondi altrimenti escluso dal palmàres. Addirittura incomprensibile se non ridicolo appare invece il Premio Mastroianni come miglior attore esordiente a Jasmine Trinca, ormai sull cresta dell’onda da dieci anni e nota internazionalmente. Sicuramente il piccolo interprete di Baarìa oppure i due protagonisti dello stesso film di Tornatore lo avrebbero meritato con più legittimità.
Ma veniamo al cinema italiano. Come detto, è stata l’edizione della rinascita: Capotondi ne è la prova, Claudio Noce (Good Morning Aman), Susanna Nicchiarelli (Cosmonauta), Luca Guadagnino (Io sono l’amore) ne sono la conferma. Ma pensiamo anche a Lo spazio bianco di Francesca Comencini, simbolo di un cinema che sta cambiando, che sta prendendo coscienza delle sue potenzialità. La regista di A casa nostra ha infatti invertito la sua marcia discendente regalandoci un film maturo, privo dei soliti clichè, interpretato con maestria dalla splendida Margherita Buy (degna della Coppa Volpi).
E non scordiamoci del nostro Sergio Castellitto, in trasferta in Francia, dove è interprete raffinato del delizioso Questione di punti di vista di Rivette.
In molti hanno parlato di ennesimo fallimento per la spedizione italiana alla Mostra del Cinema, ma sarebbe superficiale guardare solo ai vincitori finali e non considerare la vera natura e la qualità delle opere. E’ vero che sono passati undici anni dall’ultimo Leone italiano (Così ridevano di Gianni Amelio), però quest’anno è inutile processare il nostro cinema presente al Lido. E’ stata infatti un’edizione pregna di buone opere tricolori, che si è aperta alla grande con Baarìa (deludente ma epico), che ha dedicato un’intera sezione alla nostra produzione (Controcampo italiano) e che ha reso omaggio a grandi protagonisti del passato (ricordiamo i documentari Vittorio D., Giuseppe De Sanctis, Negli occhi, film su Vittorio Mezzogiorno). Solo Placido ha completamente sbagliato il tiro con il suo Il grande sogno, ma è inutile mandarlo alla ghigliottina per un errore di percorso.
Non riusciamo proprio a vederlo questo fallimento, anzi, notiamo una netta ripresa. La crisi sembra stia lentamente arrivando alla sua fine. Speriamo si vada avanti così, per il bene del cinema italiano e per il bene della Mostra di Venezia.

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