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Venezia 71 - Conversazione con Luigi Lo Cascio

Pubblicato il 5 settembre 2014 da Fabiana Sargentini


Venezia 71 - Conversazione con Luigi Lo Cascio

Passeggio con Luigi Lo Cascio per qualche centinaia di metri sul lungomare, dal Casinò all’Excelsior, dove scegliamo di sederci a chiacchierare in riva al mare. Nel breve tragitto veniamo fotografati, ripresi da telecamere, fermati da fan per fare foto insieme, firmare autografi. Discutiamo sulla popolazione che staziona all’interno del magnifico e sontuoso albergo del Lido. Luigi mi assicura che con il pass della Biennale ci faranno entrare. Di mia parte lo rassicuro che in questi giorni, in effetti anche da sola, mi hanno già lasciato mettere piede sulla marmorea e splendente pavimentazione. "All’entrata non mi riconosce nessuno: mica sono Favino!" Mi metto a ridere ed entriamo. Luigi si ferma a salutare Riccardo Scamarcio seduto ad un tavolino, resto qualche passo indietro ad aspettarlo, non mi presenta al collega belloccio, qualche altra persona lo importuna gentilmente, flash, firma su cartoncini, poi finalmente iniziamo una piacevole conversazione.

Come scegli i ruoli che accetti? Immagino te ne propongano più di quelli che poi decidi di fare.

Quelli che Non ho fatto non è detto che non mi piacciano. Rispetto alla scelta dei progetti da accettare ci sono più situazioni differenti: se conosco l’autore è un conto, se è un esordiente considero la sceneggiatura, l’impatto che hanno la storia e il personaggio, ma mi devo sentire in sintonia con la persona che mi propone il film.Un autore già consolidato può succedere che non legga nemmeno la sceneggiatura, la fiducia e il piacere di lavorare insieme prescindono dal resto.
Per temperamento mi metto a servizio del regista e non mi intrometto nella scrittura. Mi offro, mi presto, tranne piccole cose, eventualmente un lavoro di lima sulle battute. Con un regista esordiente la cosa è diversa, mi deve attrarre il personaggio, la storia, devo immaginare che proverò gioia a stare dentro il film anche successivamente, una volta finito, seguirlo in giro per i festival o nelle sale, la promozione. Tanti elementi mi portano ad accettare. Può capitare, ed è una cosa che mi è capitata, è non sentirsi giusti, all’altezza, lusingati ma a volte ho rifiutato cose di valore, importanti. Nel teatro è più facile, c’è la tradizione. Dire no a teatro a ruoli come Riccardo III o Edipo, perché magari non ci si sente congeniale o per un problema di maturità e mezzi, tecnica. Di solito accetto se sento che è la cosa giusta in quel momento.

È la prima volta che lavori con Ivano De Matteo: come ti sei trovato?

Benissimo. Lo avevo conosciuto poco alcuni anni fa sul set di "Luce dei miei occhi" (regia di Giuseppe Piccioni, 2001? Verifica e verifica premi e riconoscimenti), lui aveva un piccolissimo ruolo e avevamo recitato insieme, lo stimo come attore, mi sono piaciuti i suoi film, è trascinante, contagioso, furore, dolcissimo, appassionato, ha uno di quei tratti in via di sparizione: la passione radicata in una totale onestà, nella coincidenza tra i suoi più profondi interessi e i film che vuole fare. Entra in relazione totale con le sue storie, un entusiasta, innamorato degli attori. È rimasto travolto dal teatro testi recitazione, mi ha conquistato. Abbiamo fatto una micro tournée di festival con il suo film precedente (Gli equilibristi, 2012) e il mio film d’esordio (La città ideale, 2013): presentare i film nelle stesse situazioni è curioso, ci siamo ascoltati, abbiamo approfondito una conoscenza. Al nostro ritorno, qualche giorno dopo, mi ha chiamato e portato la sceneggiatura.

Avevi già letto il libro di Hermann Koch da cui è tratto il film, La cena? Te l’ha dato da leggere Ivano prima delle riprese o hai preferito affidarti esclusivamente alla sceneggiatura? Quanto è aderente al testo scritto e quanto è liberamente tratto?

Non l’ho letto perché ho pensato che non mi serviva. Inoltre non ne avevo il tempo. Ho chiesto a Ivano: "Il personaggio viene detto di più nel romanzo?" Mi ha risposto: "No, l’ho cambiato". Ho capito che dunque leggere il libro mi avrebbe disturbato. Non volevo creare uno strabismo nel personaggio, quello che trovavo nel romanzo e quello che era stato scritto per il cinema. Mi sono riferito solo alla sceneggiatura.

Tu che sei un attore colto, intellettuale, appassionato di letteratura (correggimi se sbaglio), ami lavorare in opere cinematografiche tratte da romanzi? Oppure hai timore che la matrice letteraria confini il film, lo chiuda in dei limiti, lo castri (o castri il regista) in qualche modo?

Dipende dal romanzo, se è un monumento o un libro normale, contemporaneo, meno noto. Come nelle biografie. La differenza la fa se è qualcosa su cui c’è o meno aspettativa, una cosa che già esiste nella mente dello spettatore. Il primo disilluso può essere lo scrittore, può sentirsi tradito. Bisogna sapere capire il salto che bisogna fare. Non mi preoccupa. Se è un capolavoro e sul personaggio si è sedimentata una serie di letture, la proposta singolare si espone subito a un fallimento. Il teatro ha delle virtù rispetto al cinema. L’investimento in un film paralizza da prima, talmente impegnativo economicamente e produttivamente. Se un romanzo ti ha appassionato molto è un peccato che ci siano perplessità a ripeterlo. Una grande opera può vivere delle sue infinite riletture, è sempre un arricchimento.

Il tuo ruolo nel film è complesso, sfaccettato, centrale alla narrazione. Senza svelare troppo (il finale è un colpo di scena inaspettato), quanto ti ci sei rispecchiato?

Non mi rispecchio per niente in questo personaggio. Da mai. Neanche dall’inizio. Posso giustificarlo, capirlo, ma non credo di essere così. Nella scelta finale non mi riconosco ma neppure nel modo di interpretare la sua crisi. La sua reazione non mi somiglia, se guardo il film. Certo, il film racconta proprio questo: ritrovarsi in una situazione del genere fa saltare le certezze. A che serve il film? Nel momento in cui vedi il film, se il regista ha messo in scena bene la storia, se parteggi per qualcuno, si può prendere posizione. Nella vita può essere non portata fino in fondo. Riguardo alla gerarchia dei valori aderisco al personaggio interpretato da Alessandro Gassman, che non è tra il cuore all’etica, piuttosto sull’Esercitare finalmente e in maniera cruciale la figura di padre.

Da neo padre quale sei (anzi neo bis padre, per coniare un neologismo scemo) come pensi ti comporteresti in una situazione analoga?

Ho due figli molto piccoli, due anni e tre mesi, lontani da possibilità simili, lontani dall’estraneità e la lontananza che hanno questi genitori con questi figli. È troppo presto per avere la preoccupazione di mostrare, e dimostrare, cosa è bene e cosa è male. La cosa che mi piace, ora, è assicurargli una presenza, l’idea che loro possano percepire che io ci sono per loro.

Da quando hai esordito alla regia in una tua opera prima (La città ideale, 2012) è cambiato il tuo modo di lavorare per altri registi? Ti capita di pensare "questa scena la girerei diversamente"? O ti capitava negli anni prima di fare un film tuo e proprio questo ti ha fatto decidere di provare a fare il grande salto?

No. È un vero piacere tornare a fare solo l’attore e non doversi preoccupare di come mettere in scena una storia. Quando faccio l’attore riprecipito in una sorta di ignoranza della grammatica del cinema. E ne sono contento. È una condizione privilegiata occuparsi solo del personaggio. La regia è stata una esperienza esaltante che mi piacerebbe ripetere. Neanche prima di esordire alla regia, ho mai pensato a suggerire al regista come fare una scena: se tu mi dai una due pagine e mi chiedi come la metteresti in scena io non so da dove cominciare. Non ho un mondo iconografico figurativo di accumulazione di film visti per cui traduco in immagini e in film. La visione, per me, comincia con la scrittura reale della sceneggiatura, allora spuntano le immagini, dalle parole: non ho capacità di pensare di essere un regista se non in questo senso.

Come ti prepari a un personaggio? Ci sono dei metodi, dei riti ripetuti in ogni film o ogni volta è diverso?

Ogni volta è diverso, il personaggio, il tipo di film, il tempo a disposizione. Una costante: non preparo mai il personaggio in maniera totale prima di arrivare sul set. Abbozzo. Aspetto i primi due-tre giorni con regista, attori e luoghi per precisare gli elementi abbozzati. Nelle prime giornate tutto da coerenza all’intuizione che si era manifestata in precedenza.

Come vedi il cinema italiano attuale? Da quando hai iniziato (con I cento passi a Venezia nel 2000) cosa è cambiato?

Non penso che il cinema italiano sia in crisi a meno che non lo sia da sempre. Ogni anno due o tre film belli escono, sono pochi sono tanti, chissà, ma mi chiedo: esiste un cinema italiano? Qual è? Quello parlato in lingua italiana? Mi ricordo L’imbalsamatore, ebbe su di me un forte impatto. Non c’è una cosa che accomuna tutto il cinema italiano. Il panorama è frastagliato, regionalismo, non ci sono più scuole, non c’è comunicazione tra gli autori. Sono tante voci solitarie che se poi il film è bello escono fuori dal coro. Dal mio punto di vista che un regista si dica "che film faccio?" vuol dire che non è un autore. È proprio il contrario, uno deve essere invaso da una questione e quella cosa non può che essere la storia che vuole raccontare. Non si può disgiungere tra la vita e l’opera, si smargina tra una cosa e l’altra. Un autore che porta un mondo interiore scaraventa nel mondo fuori un universo che prima non c’era. Quindi film belli si, se ne vedono, autori chissà. Bisogna verificare se ci sono e chi sono e che tenuta hanno, che slancio ha la gittata della loro ispirazione.


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