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VENEZIA - La 14. Biennale di Architettura "Performativa"

Pubblicato il 16 giugno 2014 da Paolo Sanvito


VENEZIA - La 14. Biennale di Architettura "Performativa"

Il visitatore della Biennale non è mai stato altrettanto coinvolto nell’azione performativa quanto nell’attuale edizione ideata da Rem Koolhaas, che con le sue 5 sezioni "Assorbendo la modernità", "Monditalia", "Elements of Architecture", "Sessions - Il progetto per le Università" e "Meetings on Architecture" forse dovrebbe aggiungere un sesto titolo del tenore "Valenza performativa dello spazio architettonico"; ma l’esistenza di una tale sezione è o contingente, ovvero non pianificata bensì nata dal caos magmatico dell’ideazione; oppure è tacitamente contrabbandata insieme alle altre essendo una sezione-ombra. Ma è difficile sapere da Koolhaas, in generale, che cosa realmente voleva, non appartiene alla sua strategia in ogni modo. Un dato di partenza piuttosto produttivo è che Koolhaas si è trovato in corso d’opera a lavorare in un’istituzione fortemente radicata nel territorio e già dotata di un forte orientamento, dovuto a Baratta da tempo suo presidente. E’ l’istituzione Biennale ad avere preventivamente metabolizzato altre direzioni, quella di Rigola nel teatro e quella di Sieni nella danza, prima ancora di conferire la direzione di architettura a Koolhaas. A questo punto l’architetto olandese, che è personalità estremamente metamorfotica e trasversale, si è affiatato velocemente con Virgilio Sieni, il coreografo fiorentino che è allo stesso tempo laureato in architettura. E Sieni ha costruito, come un collega appunto, gli spazi scenici all’interno dell’Arsenale che sarebbero serviti a sé ed agli altri performer ospitati per mostrare le loro realizzazioni. Nulla di nuovo in questo. Anche per Bruno Zevi l’architettura è arte, ma allo stesso tempo la condizione per il dispiegamento delle altre arti, che vengono accolte, per modo di dire, nel suo seno, ed è quello a cui assistiamo a Venezia. Sieni ha compiuto un esperimento interessantissimo, che forse non avrebbe mai avuto luogo se, come nei binari già preordinati, non si fosse mai trovato come ora a collaborare con un architetto. Lo spazio della Biennale dunque è deambulabile, Gehraum (Schmarsow), e assolve il suo significato nel suo fungere da involucro al corpo che lo attraversa.
Si potrebbe vedere una certa tracotanza in tale desiderio pervasivo di voler riassumere in un unico gran corridoio, qual è l’Arsenale, tutto lo scibile sull’attualità culturale italiana; l’esperimento è interessante e frutta certamente alcuni ottimi flash, oltre a diffondere il senso di rivalsa, o diretta esplicita denuncia, del caos italiano (Italia, come dichiarato nel testo stampa, come paese "in bilico tra il caos...") e c’è più di un dubbio sulla riuscita di una simile operazione enciclopedistica; come ce n’è anche per quanto riguarda l’ambizione, la curiosa intenzione di voler "analizzare al microscopio" gli elementi fondamentali degli edifici (Padiglione Centrale) e con questo aver risolto annosi problemi di definizione di tipo, genere e di tipologia architettonica. Ma a volte l’estemporaneo partorisce il nuovo.

Performer o architetti? L’influsso dell’aspetto scenico sui materiali espositivi avviene dunque a due livelli: da una parte, l’onnipresenza della messa in scena nel senso stretto all’interno dello spazio architettonico viene infatti esaltata dalla continua incursione di esperimenti del tutto non convenzionali di danza; da segnalare in proposito Cristina Rizzo, distintasi in numerosi progetti autonomi negli ultimi anni e quasi „cooptata“ da Sieni che le ha dato carta bianca lasciandole portare qui un anti-Bolero raveliano, un Bolerò voce del verbo bolare danzato da bambini e senza nulla di solenne né storicizzante, pura performance e movimento.
Ad evidenza: Cristina Rizzo absorbed modernity (and refused it più di ogni architetto). Dall’altra, l’intenzione di mostrare come l’ipostasi della modernità venga trasformata, digerita, tradita e infine spietatamente oltraggiata nell’architettura contemporanea doveva condurre, quasi inevitabilmente, ad una meta-architettura, una "Architettura del Moderno" inscenata per poter essere, consequenzialmente e scientemente, superata. E’ quello che accade in quasi tutti i padiglioni e i progetti presentati, ma che altrimenti fare? Il discorso sulla modernità finisce necessariamente ad essere, almeno nelle nazioni occidentali e occidentalizzate, un metadiscorso, dove il moderno è fondale, quinta, scenografia appunto, ma nulla di architettonico. Il tema della mostra non è il moderno, ma come esso viene inscenato. Così il curiosissimo, sentimentale padiglione tedesco, in cui una plurima finzione ci benda, rapisce e immerge nell’anno 1964 in un salotto del cancelliere della RFT (il Kanzlerbungalow) che si era liberato dall’adenauerismo e iniziava un nuovo corso per la Germania. William Forsythe, presente solo come consulente del padiglione ma comunque quasi massimo coreografo vivente, fornisce il canto degli uccelli finti che facciano illudere il visitatore (spettatore?) di vivere nel 1964. Uccelli che vivevano allora e si sono spostati da Bonn, quindi non cantano più oggi. Il padiglione svizzero fa immaginare progetti di spazio urbano di una Dokumenta del 1972... La Polonia con Impossible Objects, ricostruisce il monumento-catafalco del Maresciallo Pilsudski ricostruito 1:1 fedelissimamente da sembrare vero, per farci reagire sanamente contro i 13 anni, dal 1926 al 1937, di dittatura che il paese sopportò. Tra tutti, è forse il padiglione che più sembra un palco teatrale.


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