Veronica Mars: è meglio bruciare che consumarsi lentamente?

In questi giorni Italia 1 sta mandando in onda - molto, probabilmente troppo rapidamente - gli episodi della terza e ultima serie di Veronica Mars. Ultima perché questo piccolo cult, un esperimento estremamente interessante di ibridazione tra teen drama e detective story, si è scontrato con le dure logiche di mercato dopo la fusione del network UPN con la più esigente Warner Bros nella nuova rete CW. Che ha sacrificato in nome dell’audience molti serial originali ed intelligenti in favore di più redditizi, ma di certo meno dotati reality shows.
Le grane produttive di Veronica Mars nascono, però, soprattutto dal passo falso compiuto dagli autori, Rob Thomas in primis, assecondando la politica del network ed optando, nell’orchestrazione della narrazione, per il passaggio dalla linea orizzontale che aveva contraddistinto le prime due serie ad una quasi esclusivamente verticale.
Errore fatale, che ha snaturato un serial incentrato su un grande mistero di inizio stagione, destinato a risolversi solo nella season finale, ma capace comunque di regalare in ogni episodio una detection minore, autoconclusiva. La tessitura del serial risulta pertanto complessa: in Veronica Mars, l’anthology plot dell’episodio, oltre a stemperare la tensione, fa contemporaneamente evolvere il running plot, che comprende sia le vicende private dei personaggi che il caso da risolvere, sempre intimamente legati.
E se il mistery della prima stagione era così potente e nuovo - l’omicidio brutale di Lilly Kane, adolescente bella e ricca, migliore amica di Veronica - da far profondere i critici in paragoni con l’assassinio televisivo di fanciulla più celebre degli anni 90, quello della Laura Palmer di Twin Peaks, la seconda stagione raddoppiava il colpo, con una situazione addirittura hitchcockiana: quella dell’innocente che si trova costretto a discolparsi da solo quando tutte le prove paiono decretarne la colpevolezza.
Questo il running plot del personaggio di Logan, che veniva a sommarsi a quello dello scuolabus caduto giù da un precipizio.
Una vicenda che, alla luce di quanto ci ripete con costanza la protagonista - a Neptune nulla accade per caso! - ricorda la paranoia da teoria del complotto di certo cinema anni 70.
Tanti sono dunque i riferimenti ‘colti’ di Veronica Mars, oltre naturalmente a quella sua anima un po’ noir, apertamente denunciata dai colori caldi dello studio della Mars Investigations e su cui insisterà la sigla della terza serie nel tentativo di rivolgersi così a un pubblico più adulto e amante del genere.
Eppure gli elementi di unicità dello show vengono epurati puntata per puntata con il passaggio alla CW, che decide di puntare sulle vicende sentimentali di Veronica e il fidanzato ribelle, il ricco e sfortunato Logan Echolls, ottenendo lo scivolare progressivo del serial nel clima da soap opera del teen drama classico, evidentemente poco nelle corde degli sceneggiatori marsiani che si rifugiano nel consueto modello di amore travagliato trascurando le vicende investigative e i personaggi di contorno.
E veniamo così al secondo e fatale colpo assestato allo show: il fedele Wallace, l’esperta di computer Mac, lo sceriffo ottuso Lamb e l’amico delinquente Weevil, erano figure fondamentali nell’universo di Veronica, non solo perché partner nelle indagini della protagonista, ma perché rappresentanti di tante finestre su altrettanti mondi diversi in quella città ‘senza classe media’ che è Neptune.
Nel sobborgo esclusivo, popolato da giovani ricchi e viziati non distanti dai rampolli di The O.C., gli amici di Veronica fanno di lei una figura liminale, un ponte tra la zona povera e sconveniente di Neptune e gli 09 miliardari di cui prima faceva parte. I conflitti adolescenziali che la protagonista si trova a risolvere sono infatti quasi sempre anche dei conflitti di classe. Nell’episodio pilota questa tensione del contesto sociale è rappresentata in maniera diretta e la natura politica dell’operazione, se non preponderante ha comunque il suo rilievo.
Ogni indagine di Veronica è un’indagine sulla propria città e nella propria coscienza, una verifica di quanto l’ambiente incida nel comportamento dell’individuo, affrontato con quel sarcasmo di cui è capace l’intellighenzia liberale americana.
Ma la terza stagione strizza l’occhio ad un pubblico sempre più giovane perdendosi per strada gli aficionados in cerca di un prodotto meno modaiolo e più stimolante. E così non dispiace più di tanto, intrapresa questa via pericolosa, che alle sofferenze dello show sia stata posta fine con l’eutanasia dei programmi in declino. Veronica il meglio di sé l’ha dato nella prima trascinante stagione e nella seconda, complessa, stratificata, una vera sfida lanciata allo spettatore, una sorta di ‘slow vision’, che obbliga lo spettatore a stare attento e tenere il filo, in mezzo ad un mare di ‘fast serial’, dove la visione mordi e fuggi deve catturare per il tempo necessario a infilarci uno spot.
Se questo era il suo destino, è meglio che Veronica sia morta. Ma l’hanno uccisa in maniera subdola, facendo addormentare il suo spirito eversivo come uno degli ultracorpi siegeliani, come se il maccartismo di allora sia stato solo sostituito dalla definizione politically correct.
Agli autori - oggi in sciopero a reclamare il loro potere sul prodotto - non resta che vedere la propria creatura cambiare sotto i loro occhi ed essere snaturata degli elementi che ne hanno decretato il successo. E gli shows manifestano un decorso sempre più breve, più rapido, arrivando velocemente in cima ma bruciando in un attimo.
Probabilmente la sperimentazione visiva è giunta tanto in alto da dover ritornare al modello iniziale, quello cinematografico, in una concentrazione degli elementi drammaturgici e visuali che necessita di una minore dilatazione temporale.
Per questo serial molto amati crescono di livello nelle prime folgoranti stagioni per poi esaurirsi, invece di continuare nella tranquillizzante mediocrità. Ma allora, è meglio bruciare o spegnersi lentamente?
