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Wong Kar-wai: Il turista del tempo

Pubblicato il 14 novembre 2004 da Leonardo Gliatta


Wong Kar-wai: Il turista del tempo

Visioni di un amore. Di un unico, eterno amore. Quello tra Maggie Cheung e Tony Leung, probabilmente. Quello di tutte le vite, quando sono nel mood giusto per l’amore. Questo 2046 è l’odissea nel tempo di Wong Kar-wai, un treno che viaggia lungo un unico binario morto, indietro, nel passato, avanti, nel futuro, sempre nel 2046. Anche Tony Leung è rimasto imprigionato nella corrente dei ricordi, è salito su questo treno qualche anno fa, in un altro film chiamato In the Mood for Love, è da allora non è più sceso. Il treno si è fermato a tutte le stazioni, languide passeggere sono salite e sono riscese alla stazione successiva, ognuna di esse aveva qualcosa, un particolare riconoscibile, un’acconciatura, un modo d’incedere, una luce negli occhi che apparteneva a Lei, la donna perduta. Ogni donna salita sul treno per il 2046 porta con sé il profumo dolceamaro della promessa, che si dilegua in un batter d’occhi. Per chi attendeva il film innovativo, futuristico, che avrebbe segnato un passo in avanti nella filmografia del regista di Hong Kong, rimane la delusione di vedere storie “wonghiane”. I balletti d’amore, le schermaglie, le donne troneggianti, l’immancabile Leung sempre più glamour nelle sue pose hollywoodiane, sono variazioni di stile sul tema dell’amore non corrisposto. Dov’è la novità di 2046? Nel cast stellare, che fa di questo film il primo china-movie con un tasso di fascinazione superiore alle pellicole del periodo d’oro di Hollywood? Sarebbe come dare del manicheo a Wong Kar-wai, del semplice mistificatore. Nel ritmo calibrato al minimo dettaglio dell’entrata in scena delle tre dame di cuori, la bellezza mozzafiato della prostituta Zhang Ziyi, che ama fuori tempo sulle note di Siboney, la Casta Diva dell’Oriental Hotel, Faye Wong, che scrive lettere d’amore al ragazzo giapponese che non può amare, e Gong Li, enigmatica giocatrice d’azzardo, la mano guantata di nero, splendida nella sua Perfidia? Forse, ma non solo. Qual è l’alchimia di un film entrato nella mitologia del cinema prima ancora che se ne fosse visto un solo fotogramma? 2046 è il ricettacolo di tutte le magnifiche ossessioni wonghiane. Prima tra tutte il Tempo. Tempus fugit, diceva qualcuno, e ben dovevano conoscere questo motto i produttori del film, che inseguivano pervicacemente il sogno di un capolavoro. Il tempo come durata filmica, il primo lungometraggio nella filmografia di Wong a durare due ore e dieci minuti, che rimane pur sempre poca cosa in confronto ai chilometri di pellicola girati in cinque anni di lavorazione. Il tempo beffato di Cannes, primo caso nella storia del Festival della Croisette di proiezione ufficiale alla stampa rimandata. Il tempo viaggiato, o il viaggio attraverso il tempo che non ha mai fine, perché il tempo è quello dei ricordi. Il tempo della musica, con espliciti omaggi al cinema europeo (Peer Raben, il compositore dei film di Fassbinder, il tema di Julien et Barbara da Finalmente domenica di Truffaut), con il visionario Umebayashi che dipinge struggenti soundscapes, fino all’Adagio de Il Giardino Segreto che avvolge in un disperato abbraccio l’androide Faye Wong e il viaggiatore Takuya Kimura. Il tempo dei Natali, scadenze intermittenti che segnalano l’avvicendarsi delle solitudini.

Il tempo che fa da ponte tra un film e l’altro, gli echi delle distanze, i riferimenti incrociati tra In the Mood for Love e 2046, due figli illegittimi di un Kronos tiranno, che non si vuole separare dalle sue creature. Le corde tese tra un film e l’altro potrebbero rendere i lungometraggi due episodi di una stessa storia, e così leggere 2046 come il seguito della storia d’amore di In the Mood for Love: Mr. Chow, abbandonato dalla donna amata, diventa un cinico e disilluso playboy e continua a scrivere romanzi di fantascienza trasferendosi nella stanza 2047, accanto a quella che è stata testimone del suo amore furtivo per la signora Chan. Ricordi perduti, segreti inconfessati, lacrime roventi, sguardi reticenti, gli anni Sessanta, fumo di sigarette, lettere d’amore che non arrivano a destinazione, appuntamenti mancati, amori traditi, androidi inceppati. 2046 è tutto questo e anche di più. Siamo in pieno territorio wonghiano, declinato in ogni sua forma e nuance. Una summa teologica di tutto il suo cinema, la riprova concreta che il suo è un cinema polisensoriale, che coinvolge quei sensi che il cinema spesso non contempla, come l’olfatto, il tatto e il gusto. Un cinema che soddisfa, come dopo un pranzo in un ristorante di nouvelle cuisine, di cui non hai capito bene gli ingredienti delle varie portate, ma la disposizione del cibo nei piatti, le decorazioni ornamentali, il gusto impeccabile per i particolari ti hanno fatto alzare da tavola leggero, con la sensazione di aver preso parte ad un evento culinario e con le papille gustative in trionfo.

[novembre 2004]


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