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XXVIII Festival di cinema africano di Verona

Pubblicato il 2 dicembre 2008 da Nicolò Gallio


XXVIII Festival di cinema africano di Verona

Si è chiusa all’insegna dell’entusiasmo per la vittoria di Barack Obama questa XXVIIIa edizione del Festival di Cinema Africano di Verona. In ogni occasione ufficiale il motto presidenziale “Yes we can” è risuonato perfettamente in linea con il tema della kermesse: il “multicolor cinema”. Una parola che racchiude, sulla falsariga del technicolor che annunciava sul grande schermo uno spettacolo grandioso, l’incontro di culture, tradizioni e visioni del mondo diverse ma assolutamente da scoprire.
Il cuore della kermesse, la sezione “Panoramafrica - Lungometraggi in concorso”, mostra chiaramente dove sta andando il “cinema delle Afriche”. A fronte del vincitore Malooned!, esempio di un certo tipo di pellicole forse ancora acerbe ma dal futuro tutto da scrivere grazie all’entusiasmo contagioso di registi come Bob Nyanja, le altre opere in competizione hanno confermato l’estrema varietà delle produzioni. Registi formati all’estero (soprattutto Francia, Olanda, Germania) e portati dunque ad imprimere uno sguardo aperto sul mondo, anche quando trattano storie apparentemente locali. Pensiamo ad esempio al doloroso e dignitoso viaggio del protagonista de La maison jaune, che parte a bordo del suo triciclo a motore per riportare a casa il cadavere del figlio. Diretto e interpretato da Amor Hakkar, è tra le pellicole più intense passate sugli schermi veronesi e gli spettatori gli hanno prontamente assegnato il Premio del Pubblico. Ma pensiamo anche al poetico e onirico Terra sonȃmbula di Teresa Prata (Premio Save the Children), viaggio di formazione del piccolo Muidinga, alla ricerca della madre nel Mozambico sconvolto dalla guerra civile.
A Matt Bish va invece il merito di aver realizzato il primo lungometraggio ugandese, Battle of the Souls, un horror dal sapore anni Settanta, in cui la dicotomica contrapposizione tra bene e male ispirata alla vicende del noto uomo di spettacolo Roger Mugisha (qui in veste di coproduttore) traccia una parabola sospesa tra voodoo e cristianesimo, accennando nei titoli di testa a fatti di cronaca misteriosamente attribuiti a riti sacrificali tribali.
È più vicino agli stilemi televisivi Sexe, gombo et beurre salé del ciadiano Mahamat-Saleh Haroun, già autore di Daratt. La stagione del perdono. Problemi familiari tra immigrati di generazioni differenti sono al centro di una pellicola agile, che in meno di un’ora e mezza affronta divorzi, famiglie allo sbando e omosessualità, con tono leggero ma non superficiale. Prosegue la collaborazione tra la popolare attrice Byouna (menzione speciale della giuria alla Miglior interpretazione) e il regista Nadir Moknèce, insieme per il terzo film sullo sfondo della città in cui il cineasta parigino ha trascorso l’infanzia. Nell’ascesa e caduta della regina dei traffici di Algeri raccontata in Délice Paloma, c’è tutta la vitalità di un Paese e di un popolo, splendidamente incarnati nella giovane attrice Aylin Prandi.
L’algerino Merzak Allouache cerca il respiro del deserto in Tamanrasset, ma lo trova solo in parte perché purtroppo il racconto è indebolito proprio dal doppio binario che sta alla base del film: il lavoro sul set di una produzione pubblicitaria si intreccia all’apparizione di clandestini provenienti dal Mali e diretti in Europa, provocando la crisi del fotografo della troupe. Incerto nell’esito è anche Eye of the Sun, dell’egiziano Ibrahim El Batout: coraggioso nell’affrontare le conseguenze dell’utilizzo di uranio durante la Guerra del Golfo, il racconto si sfalda nella parte più strettamente di fiction. Il regista ha un solido passato di documentarista e videoreporter (vent’anni trascorsi spesso in zone di guerra) ma convince poco il puzzle di storie intrecciate che compone la vita del quartiere cairota di Ein Shams.
E proprio dai documentari e dai cortometraggi arrivano alcune piacevoli sorprese. Al di là dei vincitori, C’est dimanche! per Africa Short e En attendant les hommes di Katy Lane Ndiaye in Africa Doc, le menzioni e iPremi speciali assegnati sottolineano la forza di queste produzioni low-budget. Pochi titoli, solo per dare un assaggio di opere diversissime tra loro: Coming of age di Judy Kibinge (menzione per il livello informativo e il trattamento audiovisivo ricercato) instaura un parallelo tra la crescita di una ragazza e quella del Kenya indipendente; Kunta di Angelo Torres affronta le inquietudini della Spagna contemporanea tra fantasmi di terrorismo e immigrati vittime di pregiudizi; Come un uomo sulla terra (regia a sei mani di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene) si concentra sui flussi migratori tra Libia ed Europa, documentando una realtà sfociata nella richiesta politica di un’interrogazione parlamentare. A Ellen Johson Sirleaf, prima donna capo di stato in Africa, è dedicato il ritratto di Daniel Junge e Siatta Scott-Jhonson Iron Ladies of Liberia (Premio Nigrizia). Mokili di Berni Goldblat cattura infine il ritratto di due amici, paradigma dei giovani d’oggi, nelle cui mani è il destino dell’Africa stessa.


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