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Zoran, il mio nipote scemo - Intervista a Matteo Oleotto

Pubblicato il 1 novembre 2013 da Filippo Baracchi


Zoran, il mio nipote scemo - Intervista a Matteo Oleotto

Vincitore della Sic a Venezia e del premio Fedic con Zoran, il mio nipote è scemo, Matteo Oleotto debutta al lungometraggio, dopo cinque anni di lavoro per realizzarlo. Il film vede sullo schermo una coppia inedita: Giuseppe Battiston e Rok Prašnikar, frutto di una co-produzione Italo-Sloveno, visto che il film si ambienta tra il Friuli e la Slovenia, luogo di origine del regista.

Come definiresti la tua opera prima Zoran, il mio nipote scemo?

L’esperienza più bella della mia vita, per quanto riguarda il dietro le quinte. E’ un film, il film che volevo fare. Se qualcuno fa una critica pesante al film ci resto proprio male perché era il film che volevo fare, nel bene e nel male mi rappresenta parecchio. Sono contento dei rischi che ci siamo presi a livello di sceneggiatura, e sono contento di come sia venuto il film. Cambierei pochissimo. Ma niente di sostanziale.

Il film racconta di un rapporto tra due personaggi diversi tra loro, Paolo e Zoran. Ci puoi raccontare qualcosa di più sui personaggi e sul loro rapporto?

Abbiamo lavorato in due modi diversi: da una parte Paolo che è la summa massima di personaggi diversi che ho conosciuto e conosco ancora della mia città, personaggi che combattono quotidianamente per guadagnarsi una vita migliore, ma questa vita migliore difficilmente arriverà, perché non sono in grado di riconoscere quando passa il treno giusto. Zoran è un ragazzino ispirato ad un’esperienza lavorativa in un ospedale psichiatrico di Gorizia, che amava giocare a freccette e quando giocava diventava forte e sicuro di sé. Abbiamo cercato di mettere insieme due elementi perché ci facevano ridere e perché eravamo curiosi di come sarebbe andata a finire la storia tra questi due essere umani; abbiamo cercato di metterli in un contesto che è la mia terra cioè casa mia.

Tra gli sceneggiatori compare Marco Pettenello (Io sono Li e La prima neve) che racconta già un Nord Est che si prende in giro e che cerca di analizzarsi.

Sì sì, il Nord-Est è una terra piena di contraddizioni e racconti, poco raccontata al cinema, malgrado ci siano registi illustri come Mazzacurati. Rimane una terra ancora da scoprire. Qui c’è ancora qualcosa di nuovo da raccontare riguardo le dinamiche e i personaggi in un contesto del genere.

Ci puoi invece dire qualcosa di più sul racconto trans-frontaliero, su due territori apparentemente uguali (Friuli e Slovenia) e divisi da un confine?

Ho voluto provare a raccontare il confine come è adesso. Il tentativo è stato raccontare una zona geografica, che è la mia zona geografica, riscrivendola come un tutt’uno, però tenendo presente che è una zona che comprende parte dell’Italia e parte della Slovenia. Non vedo differenze se non dal punto di vista architettonico. La mia volontà era di riscrivere un territorio nuovo, che comprendesse due paesi che fino a poco tempo fa erano seriamente divisi.

Un elemento che emerge nel film è una descrizione della Slovenia in cui la cultura ha un valore mentre in Italia è qualcosa da nascondere o dimenticare. Concordi?

Hai centrato perfettamente. Mi sono accorto alla fine del film che tutti i personaggi sloveni parlano italiano mentre il nostro protagonista Paolo chiama la Slovenia ancora "Jugo", per definirla in maniera dispregiativa. E’ un aspetto che caratterizza il territorio nel quale vive a differenza della Slovenia nel quale l’inglese è conosciuto come seconda lingua.

Il film è frutto di una co-produzione tra Italia e Slovenia. Ci sono state delle influenze a livello di storia?

Ho avuto due produttori, uno italiano e uno sloveno, che non hanno mai fatto richieste stupide. Che non è una cosa ovvia. Il mio punto di vista è stato il nostro punto di vista che mi portava a confrontarmi anche con le nostre maestranze. Mi sono fatto influenzare positivamente e la parola d’ordine è stata "dialogo".

Il film è già stato presentato in Slovenia. Che risposta ha avuto da parte del pubblico?

In Slovenia durante la proiezione a Porto Rose, al festival nazionale sloveno (come i nostri David di Donatello in Italia) il pubblico ha reagito bene. Ha riso molto e per me questa è stata una grande vittoria. Abbiamo avuto anche una bellissima accoglienza, forse ancora maggiore, al festival di Zagabria in Croazia, nel quale eravamo in concorso con il film. Proprio in Croazia le persone si sono sentite vicine a quel tipo di racconti.

Una dimostrazione che il film oltrepassa qualsiasi confine e conflittualità culturale tra diversi stati come possono essere Slovenia e la Croazia.

Assolutamente sì. Questa è la cosa più bella del film, che parla senza parlare di confini. Non devo fare qualcosa in cui il confine sia il tema del film ma una storia in cui ci sono persone slovene, in cui gli italiani odiano la parte slovena. Volevo creare un ambiente nel quale ci si muove prendendo l’auto senza problemi e muovendosi da una parte all’altra. Ad oggi posso dire di esserci riuscito.

Quanta difficoltà esiste in Italia per realizzare un’opera prima? Anche per una commedia, che rappresenta il prodotto più realizzato e necessario per l’industria cinematografica italiana.

Una fatica inenarrabile. Infatti è molto difficile debuttare. Devo gran parte della riuscita del film al mio produttore Igor Prinkic; è stata un’esperienza molto interessante lavorare con lui, visto che anche lui era al primo lungometraggio come produzione. Aveva prodotto dei cortometraggi e dei documentari con stati minoritari. Il percorso che abbiamo fatto assieme è stato interessante perché siamo partiti facendo il giro dell’Europa per poi tornare in Italia. Dal momento che i soldi non ce ne erano sia qui sia là, almeno facendo il giro dell’Europa abbiamo potuto confrontarci con persone di alto spessore professionale, abbiamo avuto degli ottimi feedback. Da Sofia in Bulgaria, al mercato Sloveno, di Berlino, Cannes, Rotterdam, andando da quelli che fanno il cinema a livello mondiale. Poi in Italia abbiamo avuto un grandissimo aiuto dalla Regione. Uno è il Fondo Regionale dell’Audiovisivo, per la parte della distribuzione, e l’altra è la Film Commission FVG, che ci ha dato i soldi per girare in loco. Con questo gruzzolo siamo partiti con il film. Dunque Europa, Friuli Venezia Giulia e Italia in ordine di percorso. E’ un percorso che consiglio a tutti: piuttosto di rimanere fermi, è meglio confrontarsi e fare.

Se non sbaglio c’è stata una sorta di crowdfunding (raccolta fondi) per film attraverso il vino?

Si, così ci siamo finanziati la prima parte di sviluppo del progetto. Insomma si tratta di avere delle idee. Spero che il vecchio modo di produrre i film sia finito e che si apra una nuova stagione, fatta di idee, di produttori che non fanno un film per comprarsi una casa, ma che amano il cinema e quello che fanno. In Italia ce ne sono molti, mi augurerei fossero tutti così.

Il tuo film racconta una parte di periferia dell’Italia come molti film presentati a Venezia. Può essere questa una prospettiva nuova per il cinema, per costruire un nuovo tipo di cinema italiano?

Si, sicuramente. Penso che la periferia mantenga ancora quel sapore dell’Italia. Le città grandi si stanno snaturando, senza voler giudicare. Nella periferia si respira quello che noi odiamo o amiamo, dipende dai punti di vista. Molti registi fanno bene a esercitare la professione nella propria terra d’origine perché conoscono meglio quello di cui parlano e il valore aggiunto si può dare così. Se esistono punti di vista differenti su zone differenti c’è la possibilità di creare maggiore introspezione e intimità nella rappresentazione. Poi la provincia ha dei temi universali che sono evidenti e possono essere raccontati senza pensare ad essa come a qualcosa di nascosto e poco interessante.


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