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12 anni schiavo

Pubblicato il 20 febbraio 2014 da Antonio Valerio Spera
VOTO:


12 anni schiavo

C’è tanto dolore in 12 anni schiavo, dolore fisico, dolore dell’anima. Un dolore che si vede e si prova allo stesso tempo, perché è un dolore che scorre sullo schermo così come scorre nella Storia, quella di tutti noi, da cui non è possibile estraniarsi. Steve McQueen, dopo aver impressionato con Hunger e Shame, prosegue la sua trilogia sull’incarcerazione, sviscerata nei suoi primi lavori raccontandoci quella coatta e violenta in una prigione dell’Irlanda del Nord e poi quella autoinflitta di un uomo rinchiuso nella sua sessuomania, questa volta optando per l’affresco storico, andando a ritroso nell’America dell’Ottocento, quella dello schiavismo razziale.

Ispirato al testo omonimo e autobiografico di Solomon Northup, 12 anni schiavo si scaglia come un macigno negli occhi, nello stomaco e nel cuore di chi lo guarda. E lo fa senza cavalcare la retorica e senza indugiare insistentemente sulla violenza fisica subita dal protagonista e dai suoi "compagni" di schiavitù, ma giocando sapientemente sul fuori campo e focalizzandosi più che altro sulle cause, sull’irrazionalità, sull’assurdità e sui risultati di tale violenza. McQueen non ci mostra tanto il dettaglio della frusta che colpisce la schiena degli schiavi, al contrario preferisce soffermarsi soprattutto sui loro volti sofferenti e rassegnati e sulla cattiveria con cui il loro padrone compie questo spregevole atto. Fa male vedere i corpi dilaniati, ma fa più male osservare gli occhi senza speranza di chi è costretto a subire una reclusione ingiusta e non riesce a trovare un briciolo di umanità nel mondo che li circonda.

Gli occhi che più impressionano sono quelli di Patsey, giovane oggetto delle violenze sessuali del perfido Edwin Epps. Il suo sguardo perso, mortificato, ormai quasi incapace di provare dolore rappresenta l’immagine più struggente del film. Il suo controcampo è lo sguardo del protagonista Solomon, pregno sì di sangue, di stanchezza, di incomprensione per la realtà in cui si ritrova, ma mai intento a dimenticare la sua libertà di rispettato padre di famiglia, di violinista di talento strappato improvvisamente alla sua serena quotidianità nello stato di New York e venduto a uno schiavista del Sud. A donargli speranza non sono solo i ricordi, ma anche la bellezza della sua musica e gli splendidi paesaggi delle lande americane, della terra che sente propria e che sente di meritare più di quanto la possa meritare il suo padrone.

Avvolto dalle splendide luci di Sean Bobbitt e dalle malinconiche note del veterano Hans Zimmer, 12 anni schiavo dietro l’apparenza di una narrazione convenzionale cela una notevole complessità filmica, che non ha paura di puntare sulla forza empatica naturale della storia che porta sullo schermo, ma che anzi sa sfruttarla per disegnare un intenso ritratto dell’anima che si staglia nella Storia del genere umano.

A illuminare e sorreggere l’opera le splendide interpretazioni degli attori, dai magnifici comprimari Paul Giamatti e Paul Dano, passando per un Michael Fassbender notevole nel restituire la dolorosa contraddizione interiore del suo Edwin Epps, ed arrivando infine all’impressionante Lupita Nyong’o (Patsey) e al protagonista Chiwetel Ejiofor, che ci regala una perfomance maestosa nella sua afflizione, nel suo pieno coinvolgimento fisico, nella sua umanità espressa con ogni millimetro del suo corpo.


CAST & CREDITS

(12 Years a Slave) Regia: Steve McQueen; sceneggiatura: John Ridley, dal romanzo omonimo di Solomon Northup; fotografia: Sean Bobbitt; montaggio: Joe Walker; scenografia: Adam Stockhausen; musica: Hans Zimmer; interpreti: Chiwetel Ejiofor (Solomon Northup), Michael Fassbender (Edwin Epps), Benedict Cumberbatch (William Ford), Paul Dano (John Tibeats), Paul Giamatti (Theophilus Freeman), Brad Pitt (Samuel Bass), Lupita Nyong’o (Patsey); produzione: Plan B Entertainment, New Regency Pictures, River Road Entertainment; distribuzione: BIM; origine: USA; durata: 134’.


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