24 ore

La storia di questo ennesimo thriller d’oltreoceano è presto detta: un trio non perfettamente assortito di rapitori, specializzati in quella nuova pratica molto americana che è il kidnapping fulminante (rapire un bambino e chiedere il riscatto prima che la famiglia del pargolo abbia il tempo di chiamare la polizia o di cercare di farsi giustizia da sé), decide di prelevare dal suo nido domestico la figlia di un giovane dottore e di una volitiva ancorché inesperta madre di famiglia. In corso d’opera però molte cose vanno storte e quelli che avrebbero dovuto essere i soliti polli da spennare si rivelano essere ossi ben più dire di quanto le apparenze avessero lasciato pensare. A complicare le cose e a farci fremere sulla poltrona ci dovrebbe essere l’aggravante della condizione della povera bambina rapita che soffre (udite! udite!) di violenti attacchi d’asma che pongono seriamente in forse la sua stessa vita. Già da queste poche notazioni sulla trama risulta chiaro che lo schema messo in scena da Luis Mandocki per questa sua nuova pellicola (suoi sono Amarsi e Le parole che non ti ho detto) è esattamente lo stesso di decine di altri film dello stesso genere. Ma il problema vero di questa pellicola non risiede tanto (o, perlomeno, non risiede solo) nella totale mancanza di fantasia dello sceneggiatore che riprende a man bassa soluzioni narrative già adottate in altri film di argomento analogo, quanto, piuttosto, nella totale acriticità con cui il regista e i suoi collaboratori si adagiano sulle dinamiche classiche del genere senza rivelarsi mai capaci di riuscire a creare delle vere e proprie variazioni originali sui temi imposti dal filone entro cui operano. Un onesto thriller, come primissima cosa, deve riuscire a spaventare il proprio pubblico, deve tenere ben desta la sua attenzione, deve, insomma, incollarlo alla poltrona costringendolo, fosse pure per qualche minuto, a smettere di masticare i suoi pop corn costringendolo a seguire le immagini con la bocca semi aperta e il mitico fiato sospeso. Per arrivare a questo semplice grado zero della grammatica del genere, il regista deve essere in grado di sostenere situazioni e motivi con un’adeguata visionarietà. Il genere, per dirla breve, non richiede, per il suo puro e semplice funzionamento, originalità e scaltrezza narrative (queste sono caratteristiche che già da sole cominciano a sospingere la pellicola verso i lidi dell’autorialità e del Genio) quanto piuttosto la capacità di riprendere con precisa cognizione manierista modi e ritmi che devono essere semplicemente variati ed adeguati a contesti differenti. Se la propensione alla variazione raggiunge esiti post moderni e barocchi il risultato si avvicina agli esiti di certi capolavori di De Palma, se si assesta, invece, sui gradi di una routine da mestierante produce semplici film di cassetta destinati al consumo televisivo tipico dell’home video. Verso questi lidi di puro e semplice mestiere, pare avviarsi la pellicola di Mandocki, ma con la sostanziale aggravante che il suo racconto si rivela incapace anche di quelle piccole variazioni tematiche che sono comunque necessarie perché il sentimento da deja-vu non si imponga tanto da andare a ledere lo stesso strutturarsi della suspense. La prevedibilità, in sé, non necessariamente è un difetto all’interno di un genere come il thriller che poggia parte della sua efficacia sul desiderio del pubblico di riuscire a predire gli esiti del racconto, ma lo diventa nel momento in cui eccede la misura. Per questo la pellicola, girata professionalmente per quanto riguarda l’aspetto prettamente tecnico, alla fine dispiace. Perché è troppo risibilmente già detta e, nel suo essere tale, non riesce a tirar fuori quel minimo di atteggiamento post moderno (e, in fin dei conti il regista diceva di essersi rifatto a classici come Cane di paglia) che possa per un attimo far credere che il regista sarebbe capace di fare di meglio, ma non lo fa nella consapevolezza che, in fondo, tutto è stato già detto. Parte dell’infamia và comunque assegnata agli attori tutti sotto misura: Kevin Bacon è torvo oltre il bisogno e Courtney Love sembra capace di una sola espressione. Solo per qualche tratto si salvano i due genitori (Charlize Theron, che fuori di certo intimismo cameristico non trova il suo bene, e Start Townsend) prima che l’estremo luogo comune di cui si sostanziano i loro personaggi li travolga nel gorgo della banalità.
(24 hours - Trapped); Regia: Luis Mandoki; Sceneggiatura: Greg Iles; Fotografia: Frederick Elmes; Montaggio: Jerry Greenberg; Musiche: John Ottman; interpreti: Charlize Theron, Courtney Love, Stuart Townsend, Kevin Bacon, Pruitt Taylor Vince; origine: Stati Uniti, Germania; Produzione: Propaganda Film / Mandolin Entertainment; Distribuzione: Columbia Tristar
[marzo 2003]
