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28 giorni dopo

Pubblicato il 20 giugno 2003 da Alessandro Izzi


28 giorni dopo

Anche se il riferimento più immediato sembrerebbe essere quello a La notte di morti viventi di Romero, in realtà l’ultima pellicola di Danny Boyle affonda le sue radici in un humus ed in un contesto culturale pulp tipicamente britannico.
Caratterizzata da una forte vocazione a quella distopia che, da H. G. Wells a James G. Ballard, sembra essere un marchio della narrativa fantascientifica inglese, la sceneggiatura di Alex Garland riprende infatti con grande gusto citazionista tutta una serie di elementi narrativi e tematici che sono, nel tempo, diventati dei veri e propri luoghi comuni della narrativa, del cinema e finanche della televisione anglosassoni.
In primo luogo la precisa descrizione di scenari post apocalittici (la Londra ridotta al rango di vero e proprio deserto urbano) rimanda apertamente a certi romanzi analoghi del già citato Ballard e, forse in misura anche maggiore, a certe pagine del meno noto Space Vampires (in italiano ediz. Mondadori: I vampiri dello spazio) di Colin Wilson, già portato sugli schermi negli anni ’80 da Tobe Hooper.
Poi l’idea dell’epidemia che porta allo sterminio di intere città, se per certi versi può riportare alla mente le immagini (in alcuni momenti assai simili) di Rabid sete di sangue del canadese Cronenberg, in realtà si ricollega ancor più nettamente alle situazioni di certi serial di fantascienza come I sopravvissuti e Doctor Who.
Infine il tema della fuga di uno sparuto gruppo di superstiti dalle orde fameliche di veri e propri morti viventi riaccende prepotente il ricordo, più che della trilogia romeriana, delle pagine vivide di un altro prosatore inglese meno conosciuto: il James Herbert di The Fog (in italiano ediz. Mondandori: Nebbia).
Insomma, già da questi riferimenti si vede bene come il lavoro di Boyle-Garland si sia incanalato in un solco molto profondo e certamente sentito in patria e non dobbiamo quindi stupirci se, per tutta la prima parte della pellicola (la più bella, per inciso), i due hanno giocato di citazioni e rimandi senza raccontare con troppa dovizia di particolari situazioni e azioni già abbondantemente raccontate da altri.
Attraverso un ritmo molto serrato e privo di facili enfatizzazioni, il regista gioca, all’inizio, di sottrazione, immedesimandosi profondamente nello stupore incerto del protagonista (un ragazzo uscito da un coma che si aggira per un Londra completamente deserta in cerca dei suoi simili) e azzeccando felicemente il giusto tono allusivo e fortemente ellittico.
La scelta di girare in digitale, oltre ad abbattere i costi di produzione garantendo una maggiore autonomia creativa, è funzionale, con la piattezza della fotografia tipica del supporto e con la possibilità di virare la gamma cromatica in modo sapientemente artefatto, alla descrizione degli scenari catastrofici in cui è ambientata la pellicola. Ed è da dire che la capitale inglese si presta più di ogni altra città, con i suoi quartieri e le geometrie delle sue strade, a trasformarsi in sfondo ideale dei più improbabili disastri ambientali ed ecologici.
Superata la prima parte, però, il film, pur se ottimamente girato ed efficacemente interpretato (davvero bravi tutti i giovani attori, per lo più sconosciuti) perde di stringatezza e si fa più ovvio.
Danny Boyle dirige il film con piglio sicuro, come non faceva da qualche anno ormai, ma conferma nella nostra mente l’impressione che la sua abilità derivi più dalla qualità del testo di partenza (romanzo o sceneggiatura che sia) e dalle congiunture produttive, che non dall’espressione di un autentico talento autoriale. Ci viene da pensare allora che la ricchezza stralunata di un’opera come Piccoli omicidi tra amici sia dipesa dal clima conviviale che ha visto nascere la pellicola e che il sapore astratto e geniale di certe immagini di Trainspotting derivi dalla pagina di Irvine Welsh e non dall’immaginazione del regista. _ Solo in questo modo ci viene facile spiegare lo sfacelo quasi totale di Una vita esagerata e quello davvero totale del successivo The Beach.
Ma è ancora troppo presto per avanzare conclusioni. C’è da aspettare ancora qualche film e c’è, per intanto, da godersi l’ottimo risultato di quest’opera di un genere ottimamente rivitalizzato e a cui l’esplosione del fenomeno SARS ha donato un’aura di inappuntabile profeticità.


CAST & CREDITS

(28 days later); Regia: Danny Boyle; sceneggiatura: Alex Garland; fotografia: Anthony Dod Mantle; montaggio: Chris Gill; musica: John Murphy; interpreti: Cillian Murphy, Naomie Harris, Christopher Eccleston, Megan Burns, Brendan Gleeson; produzione: Andrew MacDonald; origine: Gran Bretagna/Olanda/U.S.A., 2002; distribuzione: 20th century Fox


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