3 Tage in Quiberon
Chi può vantare, a parte Marlene Dietrich, fra le attrici di lingua tedesca uno statuto mitologico quanto Romy Schneider? E in più, rispetto a Marlene, Romy Schneider – come pochi altri grandi personaggi dello spettacolo - ha avuto una vita sullo schermo, una vita sui rotocalchi (erano gli anni d’oro dei rotocalchi), molti dolori, alti e bassi, fallimenti, e una morte precoce (a quarantaquattro anni, pochi mesi dopo la tragica morte del figlio), di primo acchito vengono in mente, come personaggi di statuto paragonabile, solo Marylin Monroe e Maria Callas. Al personaggio di Romy Schneider sono dedicati moltissimi documentari per lo più televisivi, ma nessuno si era arrischiato a farci un film sopra (un’unica eccezione un film tedesco per la TV di una decina di anni fa), tutto sembrava già detto, discusso, chiacchierato: il successo planetario di Sissy, la donna amata, corteggiata, abbandonata dagli uomini più belli, i rapporti con la madre e col patrigno, i soldi dilapidati, la morte del figlio, una parabola vertiginosamente ascendente, vertiginosamente discendente. Coraggiosa invece la scelta della regista Emily Atef, tedesca di formazione, di origine iraniana ma con la cittadinanza francese di concentrare il proprio film intitolato 3 Tage in Quiberon (3 giorni a Quiberon) su un brevissimo tratto della vita dell’attrice, tre giorni di quel fatidico 1981 - l’anno in cui pochi mesi dopo morirà il figlio – quando Romy Schneider si ritira in Bretagna in un hotel di lusso, in primo luogo a disintossicarsi dall’alcol, dal fumo e dai farmaci (dura poco, molto poco), per poi proprio lì, proprio nel momento in cui uno stacco da tutto forse le avrebbe fatto bene, accettare di concedere un’intervista a Michael Jürgs, giornalista di grido dello “Stern” tuttora vivente, grazie alla mediazione dell’amico, fotografo e fotoreporter, Robert Lebeck, uno dei grandi fotografi tedeschi del dopoguerra (autore di foto di personaggi celeberrimi: Presley soldato, Willy Brandt, Jacqueline Kennedy etc). L’intervista di Jürgs, le foto di Lebeck uscirono, con l’autorizzazione dell’attrice poche settimane dopo, appunto sul settimanale tedesco. Poi, nel 1986, Lebeck pubblicherà anche un intero e celeberrimo libro di fotografie dedicato all’attrice, una minima parte, tuttavia, di quelle scattate. Come ha confessato la regista, il film ha potuto invece avvalersi dell’archivio di Lebeck morto nel 2014 che contiene quasi cinquecento foto di Romy Schneider, scattate appunto in quei giorni a Quiberon, ciò che ha comportato l’idea di appropriarsi di fatto dell’estetica di Lebeck, girando non a caso il film in uno splendido bianco e nero. Se la gran parte della produzione documentaria su Romy Schneider si avvale, sul piano drammaturgico, del filo cronologico che prevede una curva ascendente e una curva discendente, qui, nell’arco di tre giorni, si trova un concentrato di tutto il potenziale e di tutta la sostanza drammatica e dialettica cui dà vita la biografia dell’attrice: l’impossibilità di conciliare la vita privata con la vita professionale, le dipendenze, il bipolarismo, il pianto e il riso, i disastri dello star system, i disastri della famiglia, i disastri di una psiche fragilissima. Oltre alla possibilità di disporre delle fotografie di Lebeck (che vengono in qualche misura narrativizzate) e dell’intervista di Jürgs poi pubblicata su “Stern”, ciò che ha massimamente contribuito alla qualità del film è la scelta di dar vita a un Kammerspiel, per larghe parti da intendersi in senso letterale perché i personaggi si incontrano nella camera d’albergo di Romy Schneider. Un ulteriore valore aggiunto è dovuto alla qualità di un quartetto di attori di eccellente livello, fra i quali spiccano Marie Bäumer (attrice televisiva fin qui e di film d’intrattenimento), dotata di una certa qual naturale somiglianza con Romy Schneider - questo è con assoluta certezza, a 48 anni, il ruolo della sua vita; e poi l’ottimo Robert Gwisdek nel ruolo di Jürgs: i due danno vita a un confronto /duello fra due “primedonne”, la diva fragile e il giornalista spietato e manipolatore il quale, in realtà, si rivela figura assai più variegata e complessa di quanto, almeno all’inizio, non sembrasse. Anche Charly Hübner (era l’attore che dava il cambio a Ulrich Mühe, capitano della Stasi ne Le vite degli altri), pur nella sua imponente corporeità, è molto bravo e lo è anche l’austriaca Birgit Minnichmayr (già Orso d’Argento a Berlino nel 2009) nel ruolo di Hilde Fritsch, l’amica d’infanzia, bruttarella e un po’ frustrata ma protettiva, di Romy, venuta a Quiberon a darle sostegno e vicinanza.
(3 Tage in Quiberon). Regia: Emily Atef; sceneggiatura: Emily Atef fotografia: Thomas W. Kiennast; montaggio: Hansjörg Weissbirchinterpreti: Marie Bäumer (Romy Schneider), Robert Gwisdek (Michael Jürgs), Charly Hübner (Robert Lebeck), Birgit Minichmayr (Hilde Fritsch) produzione: Rohfilm Factory, Lipsia/Berlino, Dor Filmproduktionsgesellschaft, Vienna, Sophie Dulac Productions, Parigi, Departures Film, Lipsia, Tita B Productions, Douarnenez; origine: Germania-Francia-Austria 2018; durata: 115’.