30 giorni di buio
30 giorni di buio non sembra voler nascondere, e questo è in fondo il suo merito più grande (forse l’unico), i suoi debiti verso il cinema di genere e in particolare verso l’opera di un grandissimo autore come John Carpenter.
E lo fa non solo perché ibrida la logica dell’action movie con il filone vampiristico secondo un modello che il grande autore americano aveva già sperimentato in un piccolo gioiello minore quale era stato Vampires, ma perché è proprio l’idea di partenza ad essere imparentata con le suggestioni con cui Carpenter aveva flirtato, con risultati ben altrimenti felici, già nei capolavori dei primi anni ’80.
La scelta di ambientare le vicende di una piccola comunità dell’Alaska isolata dal resto del mondo per i trenta giorni della sua lunga notte polare ed assediata da un gruppo di famelici vampiri riprende, infatti, uno degli archetipi più amati dall’autore di Halloween: quello tutto western e squisitamente hawksiano dell’assedio di un manipolo di uomini “qualunque” da parte di una forza malevola ed esterna (o almeno così sembra) alla comunità. I vampiri di 30 giorni di buio, nel loro parlare una lingua arcaica e solo molto superficialmente circoscrivibile ad un est esotico e zingaresco, nella loro realtà indiscutibilmente “altra” (in loro la condizione umana è più un antico ricordo che un vero e proprio retaggio), sono, quindi, prima di tutto, il segno palese dell’irruzione violenta di un’alterità inconciliabile nel piano della realtà altrimenti pacifica e sonnacchiosa di una cittadina americana che sembra non voler far altro che vivere nel rispetto delle condizioni estremamente avverse dell’ambiente gelido su cui sorge. Nel mettere in scena questo gioco di assedio e di cruenti battaglie, il film, però, e vale la pena sottolinearlo per meglio comprendere i motivi del suo sostanziale fallimento estetico, si allontana da ogni possibile modello carpenteriano per via della logica indiscutibilmente dicotomica con cui disegna le coordinate del proprio racconto. In Carpenter, infatti, la minaccia, per quanto concretamente esterna alla comunità (e cosa c’è di più esterno di un mostro venuto dallo spazio come avviene nei suoi film di fantascienza), tende sempre a mimetizzarsi e confondersi con l’interno al punto che diviene virtualmente impossibile distinguere tra assedianti ed assediati. In La cosa, che condivide con 30 giorni di notte l’ambientazione estrema tra ghiacci perenni e nevi bianchissime, il discorso tocca il suo momento più autoconsapevole dal momento che l’alieno è un’entità capace di prendere le sembianze di ogni organismo vivente che incontra e per lo spettatore diventa virtualmente impossibile distinguere il mostro dagli ultimi superstiti della spedizione antartica. Ma anche ne Il villaggio dei dannati la situazione è resa sfumata dal fatto che gli alieni sono di fatto i figli della piccola comunità scelta come avamposto da extraterrestri così terribilmente simili a noi (l’unica differenza, oltre i loro capelli bionidissimi, è che, come i bacelloni de L’invasione degli ultracorpi, non sembrano provare emozioni).
Carpenter usa, quindi, lo schema del racconto d’assedio prima di tutto per mostrare la mostruosità e l’orrore insito non tanto nel mostro esterno quanto nella comunità apparentemente sana ed assolutamente “americana” che lo subisce. Cosa evidente sia nel gioiello Il Signore del male quanto nel più modesto, ma sempre affascinante The Fog che resta l’opera carpenteriana più indebitamente saccheggiata dai realizzatori di 30 giorni di buio.
La scelta carpenteriana ha, da questo punto di vista, precise motivazioni politiche. Essa definisce la visione pessimistica di una realtà sociale corrotta, fondata sul compromesso, sulla menzogna e sulla reciproca sopraffazione, dove vige, nascosta sotto una maschera middle class, la sola legge del più forte. Il nemico è interno, vive con noi, al nostro fianco, come gli extraterrestri di Essi vivono (metafora limpidissima dell’era reaganiana). Il nemico siamo noi stessi.
30 giorni di buio ribalta la logica pessimistica carpenteriana trasformandola in un racconto che è, prima di tutto, una rilettura della paura degli attentati terroristici nella quale vivono gli americani oggi. Ogni possibile connotazione politica si scioglie, così, nel gioco dell’affabulazione pura e semplice e il racconto finisce per trionfare su tutte le possibili implicazioni che lo schema narrativo dell’assedio conservava in potenza. La scelta di una precisa composizione dicotomica del discorso (da una parte i mostri, dall’altra gli uomini), che solo parzialmente si complica nel momento in cui lo sceriffo protagonista decide di farsi vampiro per meglio combattere la minaccia, fa sì che scompaiano dal piano della narrazione tutte le possibili ambiguità. La realtà sociale della piccola cittadina in cui è ambientata la vicenda è, da questo punto di vista, sostanzialmente buona. Gli abitanti del posto, che hanno le stesse debolezze e le stesse piccole mostruosità (perdonate a priori) di tutti, sono gli esponenti, prima di tutto, di un mondo fondato su reciproca fratellanza e mutuo soccorso. Non hanno un’identità specifica, sono l’astrazione di un luogo sociale impossibile. Sono una vera e propria isola che non c’è culturale.
Questa componente astratta e priva di sfumature che presiede al tratteggio dello sfondo del racconto impedisce, nello spettatore, ogni forma di immedesimazione. Impossibilitato a subire il fascino del mostro (perché troppo “altro” da noi), ma anche ad impietosirsi per il destino degli abitanti del piccolo borgo industriale (troppo generico), lo spettatore è costretto a contemplare dall’alto un’invasione che troppo rapidamente trascolora dalle prime avvisaglie abnormi (come quelle della prima notte di The fog) alla mattanza vera e propria. Come nella lunga panoramica dall’alto in cui vediamo l’infuriare della battaglia: strade bianchissime picchiettate dai punti neri di mostri e vittime confusi insieme. In questo modo il racconto sembra avanzare meccanicamente senza reali motivi di interesse o di empatia emotiva. E i soprassalti sulla poltrona sono i pochi momenti che risvegliano dal torpore e dalla noia di una regia piatta che sembra risvegliarsi solo quando copia dal fumetto da cui tutto è ripreso. Troppo poco per fare un film.
(30 days of night); Regia: David Slade; sceneggiatura: Stuart Beattie, Steve Niles, Brian Nelson; fotografia: Jo Willems; musica: Brian Reitzell; interpreti: Josh Hartnett (Eben Oleson), Melissa George (Stella Oleson), Manu Bennett (Billy Kitka), Danny Huston (Marlow), Ben Foster (Lo sconosciuto), Mark Boone Junior (Beau Brower), Mark Rendall (Jake Oleson), Joel Tobeck (Doug Hertz); produzione: Ghost House Pictures, Columbia Pictures, Dark Horse Entertainment, Ghost House Pictures; distribuzione: Medusa; origine: USA, 2007; durata: 108’