A Dragon arrives! (Concorso)
Un anno fa la cinematografia iraniana portava a casa l’Orso d’oro con Taxi Teheran di Jafar Panahi, pellicola non memorabile, ma significativa ed originale testimonianza di impegno civico. Nell’edizione 2016 l’unico film iraniano in concorso, Ejhdeha Vared Mishavad! (la traduzione in italiano suona come Arriva un drago!) di Mani Haghighi ha sostanzialmente deluso le attese. Conosciuto soprattutto come sceneggiatore e come attore – è il protagonista di Abaut Elly di Aghar Farhadi – ma già presente in passato alla Berlinale anche come autore (Modest Reception nella sezione Forum 2012), Haghighi ha confezionato un film che sembra più un esercizio di stile, talmente complicato e discontinuo da risultare nell’insieme incomprensibile.
La vicenda ha inizio con un interrogatorio da parte della polizia segreta di Teheran e tutto lascerebbe pensare a un film politico di denuncia in relazione a oppressione e tortura. Invece nulla di tutto ciò. La vicenda rievocata è quella del commissario Babak Hafizi (Amir Jadidi) che nel 1965, il giorno dopo l’omicidio del primo ministro iraniano, assassinato di fronte al parlamento, di compiere indagini sul misterioso suicidio di un prigioniero politico nella remota isola di Queshm nel golfo persico. A bordo di un’improbabile Chevrolet Impala dallo sgargiante colore arancione, il commissario conduce le sue ricerche in mezzo al deserto, dove campeggia un antico relitto di nave (forse appartenente alla marina portoghese del secolo XVII) e un recondito cimitero sotterraneo cui fa da guardia un mostruoso e gigantesco drago: secondo la leggenda locale ogniqualvolta qualcuno vi viene seppellito, il drago si agita provocando un terremoto.
L’atmosfera da thriller delineata nelle prime sequenze acquista caratteri surreali sempre più marcati via via che il detective prosegue l’indagine avvalendosi di due aiutanti, il geologo Benham Shokouhi (Homayoun Ghanizadeh), appena rientrato in Iran dagli studi compiuti in Germania, e Keyvan Haddad (Ehsan Goudarzi), tecnico del suono. Nell’intricato sviluppo dei fatti rimane implicato anche l’oftalmologo Almas (Nader Fallah) impegnato nella ricerca della figlia Halimeth scomparsa. La ricerca non dà un esito chiaro e cinquant’anni dopo viene alla luce una vecchia scatola contenente delle registrazioni dei servizi segreti che testimoniano l’arresto del commissario e dei suoi compagni d’avventura.
Verità o invenzione? Storia o finzione? Nessuno è in grado di dare una risposta, neppure il regista che del resto ha ammesso nella conferenza stampa seguita alla proiezione del film di aver voluto lanciare una provocazione spacciando per storia realmente accaduta quella che in effetti è una sua pura invenzione (in effetti nessun premier iraniano è stato ammazzato davanti al parlamento nel 1965). «Il mio scopo è che lo spettatore si chieda se la vicenda è vera oppure no, quali parti sono reali e quali fantasiose» ha spiegato Mani Haghighi. E se l’intento era quello di confondere le idee agli spettatori, allora sicuramente il film coglie nel segno. Ma la sensazione è che la sceneggiatura sia raffazzonata, che gli eventi s’incastrino tra di loro come scatole cinesi senza un filo conduttore, che i continui salti di registro e di stile siano poco efficaci e il risultato finale poco più che mediocre. Forse il clima di mistero e di spaesamento che il film produce rivela metaforicamente una denuncia del sistema politico vigente e dell’ossessivo controllo repressivo della polizia segreta sulla popolazione, ma una siffatta interpretazione, ammesso che sia realistica, non rende certamente migliore il film.
(Ejhdeha Vared Mishavad!); Regia: Mani Haghighi; sceneggiatura: Mani Haghighi; fotografia: Houman Behmanesh; montaggio: Hayedeh Safiyari; musica: Christophe Rezai; costumi: Negar Nemati; interpreti: Amir Jadidi, Homayoun Ghanizadeh, Ehsan Goudarzi, Kiana Tajammol, Nader Fallah, Ali Bagheri; produzione: Dark Precursor Productions (Teheran), distribuzione: The Match Factory (Köln, Deutschland); origine: Iran, 2016; durata: 107’