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Across the Universe

Pubblicato il 23 novembre 2007 da Alessandro Izzi


Across the Universe

Gennaio 1963: esce il singolo, Please please me che, consacrato dall’attenzione della televisione attraverso la trasmissione dello show televisivo Thank You lucky Stars, proietta i Beatles al vertice delle hit parade. Più della musica, che si lega al modello di un rock leggero abbastanza sdolcinato sia sul versante musicale che su quello prettamente contenutistico, a trionfare è il fenomeno di costume. A colpire è il modo di vestire, di portare i capelli, di farsi veicolo di una moda, non certo la qualità compositiva dimostrata da un gruppo di giovani che hanno, sì, una formazione prettamente classica, ma che sono impegnati per lo più nello sforzo di nasconderla per raggiungere il più ampio numero di ascoltatori.
E’ il tempo di un pop di superficie che canta i turbamenti di un amore vissuto in chiave prettamente adolescenziale. Poco sesso, per lo più alluso, e molti sguardi, molto corteggiamento, molto holding hands e baci rubati sotto i portici, coi genitori che possono guardare i figli dalle finestre delle camere da letto, benedicendo ed approvando. Perché i Beatles prima maniera sono così semplicemente "ragazzini della porta accanto" che piacciono tanto alle adolescenti (che cominciano ad accogliere le esibizioni della band con quei gridolini e quei sospiri gridati che sono diventato poi all’ordine del giorno) che alle madri. I fidanzatini ideali per tutte le stagioni e per tutte le età.
Nel 1964 i Beatles vanno in America. Come per il Signor Smith la meta è Washington, poi New York. Ed è un viaggio significativo. Gli Stati Uniti li avevano fino a quel momento snobbati, come avevano fatto del resto per tutta la musica beat, ma i ragazzi di Liverpool, dopo un primo momento, piacciono. Hanno una faccia onesta e sincera e per un po’ fanno dimenticare ai ragazzini delle metropoli che il Vietnam già reclama i suoi morti, che Martin Luther King sta per essere assassinato e che esiste una segregazione razziale che presto scivolerà in tragedia. I Beatles assaporano brevemente questi anni di contestazione, sfiorano la dimensione psichedelica delle droghe e della poetica on the road, respirano l’atmosfera dei tempi, ma la loro musica cambia appena. Ostinatamente temi e discorsi restano gli stessi, they don’t change their words, eppure qualcosa cambia. La musica si fa appena appena più aspra, più dissonante. Compaiono strumenti, come il sitar tanto amato da Geroge Harrison, che sembrano pagare il tributo alle mode orientaleggianti dell’epoca. Non sono più i bravi ragazzi di un tempo, i Beatles: vestono trasandati, lasciano intendere la possibilità che consumano anche loro droghe più o meno leggere. Le mamme cominciano a preoccuparsi, le figlie li seguono ora più per amore di trasgressione che per altro.
Ancora qualche anno, comunque, e la band si scioglie. Praticamente subito dopo il concerto sul tetto della Apple che è la base del film Let it be.
Prendete questa storia così brevemente raccontata, trasformate la band in un unico personaggio (cui dare l’ovvio nome di Jude) ed avrete né più né meno riassunta anche la trama e il cuore poetico di Across the universe, ultima fatica di Julie Tayomor.
Jude è un beatle a tutti gli effetti. Anzi Jude è il beatlesismo ridotto a funzione narrativa, è il cuore di quel complesso fenomeno di costume e mediatico che è stata la band di Liverpool ridotto a personaggio, fatto ingranaggio narrativo. Come i Beatles, anche Jude parte alla volta dell’America in cerca di un sostanziale padre (perché la musica beat deve molto, in fondo, nell’impostazione e nel modo di gestire la propria stessa immagine al mondo della cultura americana) e come loro, anche lui resta irretito dalle possibilità offerte dal mercato globale che in America ha il suo cuore pulsante. Come la band di Liverpool anche Jude è sostanzialmente un immigrato senza visto che attraversa tutte le contraddizioni della cultura restando ad esse quasi impermeabile: vede tutti combattere per una causa che trova giusta, profonda e necessaria, ma non riesce in alcun modo a farla diventare la sua causa. Laddove tutti hanno qualcosa per cui lottare, lui resta sostanzialmente senza un obiettivo, senza un perché. E mentre tutti si concentrano sui problemi più profondi della società contemporanea, lui resta a dipingere fragole (al posto delle mele della Apple) e a pensare alla sua storia d’amore, alla sua amata che gli sfugge, agli occhi angelici che non riesce a cogliere e alla mano che non riesce più a stringere. E come i Beatles finisce la sua avventura a cantare una canzone (All you need is love) sul tetto di un palazzo, quando le contestazioni cominciano a sciogliersi e nella realtà americana si fa strada di nuovo quel bisogno di disimpegno che è anche riposo dagli orrori del Vietnam e della politica interna verso i neri.
Quello che piace molto del film di Taymor è il modo in cui restituisce questa sostanziale anche se non totale impermeabilità della musica dei Beatles nei confronti di una società in profondo cambiamento. Quello che colpisce è il modo in cui la musica non si sposa fino in fondo col senso dell’immagine che va ad accompagnare e a sostanziare (come in ogni musical). L’attrito tra le parole ancora superficiali (anche se sostanzialmente ambigue) delle canzoni del gruppo nel pieno della sua seconda maniera (dopo la svolta del ’66) e l’orrore di un mondo sempre più violento e contraddittorio è insanabile, come è sofferto il modo con cui Jude si confronta con i problemi di una società che non è la sua, ma non per questo è meno amata.
La Tayomor è una visionaria da non sottovalutare. E il suo musical che si porta dietro la bella cifra di trentatre numeri cantati (un’enormità per un cinema, come quello contemporaneo, sostanzialmente allergico all’estetica del genere) punta tutto su una resa del discorso che rifiuta la logica dei videoclip e punta su riferimenti alti, alla Hair di Forman. Quando la macchina da presa si svincola dal dettaglio realistico e si rivolge alla musica, si avverano momenti di grande fascino formale. E i modelli sono spesso inaspettati, con citazioni che ruotano più intorno a Rybczynski o Svankmajer che al film su Woodstock. Eppure, e forse anche proprio per questo, l’impressione è che il film sia più cerebrale e di testa che non di cuore. I temi grossi ed importanti scivolano così via come una canzone dei Beatles, evanescente e leggiadra nel parlare d’amore quando tutto intorno è odio (cosa che non deve essere facile, comunque).
In questo modo se è vero che il film è teoricamente importante se visto nel suo insieme ed è destinato a diventare pietra di paragone per tutti i prossimi musicals, non di meno sono pochi i momenti di cui è composto a restare seriamente nel cuore.
Su tutti è da citare il momento della visita militare con il corpo dei soldati letteralmente spezzetato e violentato dallo split screen e fatto, in immagine, vera carne di cannone.

Conferenza stampa del film


CAST & CREDITS

(Across the universe); Regia: Julie Taymor; sceneggiatura: Dick Clement, Ian La Frenais; fotografia: Bruno Delbonnel; montaggio: Françoise Bonnot; musica: Elliott Goldenthal; interpreti: Jim Sturgess (Jude), Evan Rachel Wood (Lucy), Joe Anderson (Max), Dana Fuchs (Sadie), Martin Luther (Jo Jo), T. V. Carpio (Prudence); produzione:Revolution Studios, Team Todd, Gross Entertainment; distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia; origine: USA, 2007; durata: 133’


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