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Addio mia regina

Pubblicato il 9 febbraio 2012 da Matteo Galli


 Addio mia regina

Sofia Coppola, aiutaci tu! Il film che ha aperto il concorso della 62^ edizione della Berlinale – con una gran bella giuria: Mike Leigh presidente e, fra gli altri, Asghar Farhadi, che qui ha vinto l’anno scorso con Una separazione, Charlotte Gainsbourg, François Ozon, Jake Gyllenhaal, Barbara Sukowa – è un film completamente inutile, tratto da un romanzo noiosissimo, scritto da Chantal Thomas una nota storica francese (allieva di Roland Barthes) alla sua prima prova narrativa, un testo colmo di erudizione e con un plot tenue tenue, quasi impalpabile. Una donna ormai anziana esiliata a Vienna in piena èra napoleonica ricorda con rimpianto i primi tre giorni della Rivoluzione Francese da lei vissuti a Versailles, dove svolgeva le mansioni di lettrice, anzi di vice-lettrice per la regina Marie Antoinette, 300 e passa pagine animate dal basso continuo del rimpianto per un mondo tramontato a cui la protagonista e io-narrante aveva creduto come a qualcosa di dato una volta per sempre, non società ma natura. Un rimpianto raccontato con poca fantasia e qua e là il tentativo, alquanto forzato, di caricare questa vicenda storica di toni apocalittici e spessore allegorico, il tutto condito da decine e decine di figure, un autentico name dropping che tradisce fin troppo il mestiere principale dell’autrice. Leggendo il romanzo durante il viaggio dall’Italia, mi chiedevo come fosse possibile trarre un film da un romanzo così privo di spessore drammaturgico, se si tiene conto che l’unico evento davvero significativo è il seguente: la regina, dopo tentennamenti vari, deve subire la decisione del re di non abbandonare Versailles, ma lascia partire la favorita e amata Gabrielle de Polignac (presa di mira dai rivoltosi al pari della regina) chiedendo tuttavia alla lettrice che nel libro si chiama Agathe e nel film è stata ribattezzata Sidonie di assumerne le vesti e di disporsi quindi a rimetterci la pelle in vece di Gabrielle, se il corteo in fuga dovesse finire nelle grinfie dei rivoluzionari. E Agathe/Sidonie, anch’essa colma di adorazione per Marie Antoinette, ovviamente accetta. Se qualcuno si aspettasse il sacrificio d’amore sbaglierebbe, perché la carrozza con i personaggi nei ruoli invertiti passa comodamente il confine. Mi chiedevo viaggiando verso Berlino come fosse possibile trarre un film da un romanzo del genere, così irrimediabilmente statico, pur nel turbine degli eventi del luglio 1789. E le già pessime attese sono state ulteriormente deluse perché il film ha tutti, ma proprio tutti, i difetti del libro (eccesso di personaggi, profluvio di arredi e costumi, impianto claustrofobico) a cui viene ad aggiungerne altri, sia sul piano della forma che sul piano dei contenuti. Sul piano della forma, oltre al consueto catalogo di citazioni pittoriche (niente film sul Settecento senza citazioni pittoriche, ormai, qui c’è anche una citazione blooper, la “Donna alla finestra” di Caspar David Friedrich leggermente fuori contesto) disturba la ridondante alternanza di primissimi piani e steady cam che tampina i personaggi per i corridoi di Versailles, soprattutto la protagonista, lasciando deliberatamente tutto quanto la circonda fuori fuoco, a significare il carattere evanescente e umbratile di quel mondo che va a tramontare; sul piano dei contenuti viene pesantemente accentuata l’isotopia sessuale, in particolare quella omosessuale, talché il triangolo Marie-Antoinette/Gabrielle/Sidonie diviene senza mezzi termini un triangolo amoroso, senza che la vicenda dia luogo, come ci si aspetterebbe in una costellazione autenticamente mélo come questa, ad alcuna vera tragedia, a meno di non considerare la decapitazione di Marie Antoinette nell’ottobre del 1793 lo sfondo macrostorico sul quale stagliare la vicenda di passione che viene qui raccontata. Le allusioni sessuali, del tutto assenti nel romanzo, nel film di Jacquot si sprecano con effettacci francamente improponibili, quando il (finto) gondoliere che rema per i laghetti paludosi di Versailles si esibisce in un canto di mondina (!) e vanta in italiano i pregi del suo organo genitale. Marie Antoinette è interpretata da Diane Kruger del tutto incapace di rendere la fragilità della regina, ma solo in grado di lanciare sguardi maliardi e di lasciarsi andare a qualche languore soft-porno à la Emanuelle. Più credibile la protagonista interpretata da Léa Seydoux, acerba e scontrosa. A seguire tutta una schiera di attori prelevati di peso dalla Comédie Française, impeccabili e inutili. Benoït Jacquot ha al suo attivo una filmografia ricca di corrette trasposizioni letterarie e un interesse marcato per il Settecento, soprattutto francese (film su/tratti da Marivaux, de Sade, Constant). Il direttore del festival poteva farsi venire in mente qualcosa di meglio per inaugurare il concorso, decisamente. E meglio, molto meglio le Converse di Kirsten Dunst.


CAST & CREDITS

Les adieux à la reine (Addio mia regina). Regia: Benoït Jacquot; sceneggiatura: Gilles Taurand, Benoït Jacquot dal romanzo di Chantal Thomas; fotografia: Romain Winding; montaggio: Luc Barnier; scenografia: Katia Wyszkop; costumi: Christian Gasc, Valérie Ranchoux; interpreti: Diane Kruger (Marie Antoinette); Léa Seydoux (Sidonie Laborde); Virginie Ldoyen (Gabrielle de Polignac); Xavier Beauvois (Luigi XVI), Michel Robin (Jacob Nicolas Moreau); produzione: GMT Productions, Les Films du Lendemain, Morena Films; origine:Francia-Spagna; durata: 100’


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