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After Earth

Pubblicato il 7 giugno 2013 da Alessandro Izzi
VOTO:


After Earth

Il cinema di Shyamalan è da sempre un cinema di strappi e di ricuciture.
Non importa quale sia la storia narrata, né quale il genere di volta in volta affrontato, quello che è sempre centrale ad ogni opera di questo regista che ancora sfugge ad ogni tentativo di incasellamento è, e resta sempre, il lento processo di rimarginazione delle ferite della vita.
Il suo cinema racconta sempre il doloroso lavoro di ricostruzione dopo che il terremoto ha buttato giù ogni casa. Le sue opere nascono perennemente nel segno del lutto e si definiscono come un lento percorso di ritorno, di rinascita, di risalita alla luce quando ogni cosa riprende il suo posto anche se ogni cosa s’è fatta diversa.
La circolarità, cifra distintiva del suo modo di narrare, è apparente e reale al tempo stesso: tutto torna alle origini, ma diversa si è fatta la nostra interpretazione del Reale. Alla fine del film capiamo meglio un mondo che non è cambiato perché i morti non possono che rimanere morti. Sono piuttosto i vivi ad essere meno soli e più capaci d’ascolto, di comprensione, di compassione.
La nostra accettazione della posizione marginale dell’esistenza umana nel piano del creato è, così, centrale all’interno di un discorso di riappropriazione delle proprie origini. I rami possono lanciare le proprie foglie verso il cielo solo se le radici trovano un terreno umido in cui affondare. Tutto il cinema di Shyamalan è tensione verso il futuro che ha bisogno della gravità del presente e della riconciliazione con il passato.
E le tensioni tra l’illusione di futuro, l’infinita interpretabilità del passato e l’eccessiva labilità del presente si condensano nell’esigenza di racconto. È il racconto, la possibilità di trasformare l’esistente in narrabile, a permetterci di assistere, non più impotenti, ma anzi partecipi, al processo di rimarginazione di ogni frattura.
La narrazione nasce nella condivisione, nello scambio esperenziale perché il bisogno di dirsi presuppone una necessità di ascolto come le due labbra di una ferita che hanno bisogno del sangue per aderire di nuovo.
Il cinema di Shyamalan è tutto affollato di personaggi che si fanno narratori e che si raccontano perché solo narrando diventa possibile trovare la giusta interpretazione dei segni sparsi del creato. Il mondo è squadernato come le foglie della sibilla sparse nel vento, sta a noi capire l’ordine secondo il quale leggerle. Se l’ordine è sbagliato, l’interpretazione diventa impossibile.
Sulla terra di After Earth (un pianeta che, morto, risorge dalle sue stesse ceneri come tutti i personaggi shyamalaniani) un padre, ferito nello spirito e nel corpo, guida a distanza un figlio ugualmente ferito nello spirito. Natura non indifferente, il pianeta, aspro e selvaggio, invita i personaggi a ricucire la frattura insanabile del loro rapporto mettendo in scena il suo quotidiano nascere e morire nel gelo delle glaciazioni notturne. Ogni specie animale vive per predare, ogni contatto con l’altro è all’insegna del conflitto come conflittuali sono i non detti che minano il rapporto padre – figlio.
After Earth è la storia dolorosa di una perdita di contatti. Le possibilità di dialogo si deteriorano col tempo e l’impossibilità di comunicare, che passa per la rottura dei mezzi di comunicazione o per le interferenze, è metafora di una paralisi prima di tutto interiore, la stessa che attanaglia il piccolo Aang ne L’ultimo dominatore dell’aria o Padre Hess in Signs. Di fronte all’impossibilità di riparare le fratture occorre trovare un bypass che permetta al dialogo di maturare su canali diversi e, naturalmente, questi canali nascono nell’approfondimento sapienziale, nell’interiorità, nella scoperta di sé che è sempre un «entrare dentro» per poi «tornare fuori». Di qui il necessario passaggio per le grotte sotterranee che sono recupero di un rimosso che torna a galla solo per essere sconfitto dalla luce di quel sole che abbiamo trovato prima di tutto dentro di noi e nella ritrovata capacità di perdonarci senza indulgenza. Assume rilievo allora che, in quella grotta di un pianeta senza uomini, il ragazzo trovi dei graffiti preistorici: infanzia del mezzo, certo, ma anche infanzia della narrazione stessa che serve sempre per interpretare il mondo e per trasformare il ricordo del passato in un percorso per il futuro.
After Earth si è tirato addosso, in patria, molte critiche ingenerose. Il problema più grande è che la sua attenzione per i non detti, per i silenzi, per il dolore e il male di vivere poco si sposano con la fame hollywoodiana di un divertimento chiassone e poco incline ad una riflessione tanto sfumata. La ricerca del regista di un’utopica fusione tra modelli orientali e modelli occidentali, originalissima e importante, urta con la difficoltà dell’anima blockbuster di assorbire tanta stratificazione. Ma il fallimento è solo commerciale. L’estetica è tutta un’altra storia che dobbiamo ancora cominciare a raccontarci.


CAST & CREDITS

(Id.); Regia: M. Night Shyamalan; sceneggiatura: Stephen Gaghan, Gary Whitta; fotografia: Peter Suschitzky; montaggio: Steven Rosenblum; musica: James Newton Howard; interpreti: Will Smith, Jaden Smith, Isabelle Fuhrman, David Denman, Kristofer Hivju, Zoe Kravitz, Glenn Morshower; produzione: Blinding Edge Pictures, Overbrook Entertainment; distribuzione: Warner Bros. Italia; origine: USA, 2013; durata: 95’.


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