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1917

Pubblicato il 23 gennaio 2020 da Anton Giulio Onofri
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1917

A distanza di una settimana dalla visione in anteprima per la stampa, sull’onda immediata del trionfo ai Golden Globe, dove 1917 di Sam Mendes ne ha conquistati due (Miglior Film e Miglior Regia), chi ne scrive qui non ne conserva alcuna memoria tale da giustificare un verdetto così netto e convinto, e stenta a rintracciare nel ricordo motivi che rendendone conto in questo righe possano in qualche modo spiegare le ragioni di un successo così clamoroso. Successo che probabilmente influenzerà, come sempre accade, i membri della Academy Awards, e che avrà un peso sulla distribuzione delle statuette il prossimo 10 febbraio. Già, perché questa cronaca viene redatta un paio di settimane prima della Notte degli Oscar, né vuole costituirne in minima parte un auspicio o una previsione. Fatto sta che dopo una settimana, 1917 risulta sostanzialmente un film inutile, e spero basteranno poche e lapidarie parole per illustrarne il perché.

Che a Sam Mendes piaccia giocare con i generi del cinematografo, raggiungendo talvolta risultati lusinghieri – nonostante le accuse di manierismo che gli piovono dalla critica più severa e militante – è cosa senz’altro più che evidente. A ben guardare, il suo risultato più convincente, quello per cui sarebbe anzi plausibile spendere un giudizio nei dintorni del ‘capolavoro’, è quello Skyfall che resta tutt’ora, in questo XXI secolo, il miglior film della serie dell’Agente 007, tallonato a breve distanza dal magnifico Casino Royale di Martin Campbell: entrambi, comunque, spanne al di sopra degli altri episodi con Daniel Craig nei panni di James Bond, compreso l’altro titolo diretto dallo stesso Mendes, il deludente Spectre. Il resto della sua dignitosa filmografia comprende il sopravvalutato American beauty, il sottovalutat(issim)o Era mio padre (in originale: Road to Perdition), e altri titoli alterni per qualità e fortuna, da Revolutionary road con Leonardo DiCaprio e Kate Winslet (altro bel colpo ben assestato) al mediocre Jarhead, con Jake Gyllenhaal. Stavolta, però, il ‘gioco del cinema’ gli ha preso troppo la mano, e forse perché coinvolto da un racconto testimoniatogli direttamente da suo nonno, Mendes deve aver troppo confidato sul peso drammatico e sulla portata spettacolare di eventi in fondo un tantino prosaici, trascurando di curarne a dovere l’aspetto emozionale per concentrarsi sulla complessa costruzione dell’unico piano sequenza di cui è composto il film.

Ci si chiede che cosa abbia incantato la stampa estera negli Stati Uniti, tanto da convincerla a premiare 1917 con i due Golden Globe più importanti, nelle due ore scarse di proiezione zeppe di tutti i luoghi comuni dall’intero repertorio cinematografico in fatto di elmetti, divise sdrucite, trincee, esplosioni, mitraglie, mortai, aerei in caduta libera, nemici apparentemente innocui, graduati ottusi, ruderi, campagne sbruciazzate, ponti diruti, villaggi rasi al suolo, ragazze madri ovviamente molto graziose come sirenette che non parlano la lingua, fotografie in bianco e nero della famiglia e della fidanzata estratte dal petto e rimirate sotto un pero con l’occhione languido, e davvero chi più ne ha più ne metta, in un’esibizione di già visto tanto da rasentare un imbarazzante candore: ingenuità imperdonabile per un regista che vorrebbe aggiungere il proprio ambizioso tassello ad una lista costellata di titoli che, per limitarsi alla sola Prima Guerra Mondiale, comprende capolavori di ben diverso spessore tragico, da Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick a War horse di Steven Spielberg, passando da Per il re e per la patria di Joseph Losey o Uomini contro del nostro Francesco Rosi.

Ma il problema più grave, anzi quasi offensivo nei confronti della buona fede degli spettatori, è proprio il piano sequenza: film come il monumentale Arca russa di Aleksander Sokurov (2002), o l’interessante Victoria del regista tedesco Sebastian Schipper (2015), hanno dimostrato quanto lo sforzo di allestire un flusso ininterrotto di riprese, sfida raccolta e vinta da alcuni tra i massimi Maestri del Cinema del ‘900 che prima dell’arrivo del digitale si sono cimentati con piani sequenza lunghi anche fino a tutto il minutaggio della durata di un rullo di pellicola (circa 12 minuti), come Orson Welles, Alfred Hitchcock, Jean-Luc Godard, Michelangelo Antonioni, Robert Altman e Brian DePalma, fosse applicabile per l’intera lunghezza di un film, dai 90 fino ai 120 minuti e oltre: un modo di omaggiare l’arte del cinematografo rinunciando all’effettistica e alla ricostruzione digitale della realtà sensibile mostrata sullo schermo, restando nell’ambito della più eroica e pura artigianalità del mezzo: più che un gioco di prestigio o un incantesimo, che prevedono comunque trucchi e infingimenti, un’autentica prova di suprema abilità, come quella dell’atleta che riesce ad ottenere un record impegnando come mai altri prima di lui le doti e le qualità fisiche che la Natura ha donato al suo corpo, giustamente premiata con l’oro. Ebbene, scegliere nel 2020 di realizzare un film in un piano sequenza unico che tuttavia preveda non solo un’interruzione a metà (il soldato protagonista rimane stordito per l’esplosione di una granata e perde conoscenza: a quel punto il film va a nero, e da nero riparte dopo qualche secondo), ma anche numerose giunture digitali alcune delle quali fastidiosamente vistose per mascherare le interruzioni delle riprese e fingere quella continuità che è condizione necessaria perché si parli di piano sequenza reale, vuol dire una cosa sola: che il piano sequenza, tanto sbandierato da Mendes come metodo per mantenere costante la tensione narrativa e coinvolgere lo spettatore in un’esperienza di tipo immersivo, è un piano sequenza finto. In poche parole, non è un piano sequenza. A questo punto, visto che non te l’ha ordinato il dottore, che senso ha usare un trucco per far credere di possedere un’abilità e un virtuosismo cui in realtà hai già volontariamente rinunciato dall’inizio della lavorazione? Quale stupore vorresti destare in un pubblico che ascoltasse un virtuoso del pianoforte o del violino eseguire passaggi di difficoltà impervia, ma in playback? Nessuno. E a coloro che ti conferiscono l’oro, o comunque la massima onorificenza, per premiare la tua superiore abilità artistica, andrebbe chiesto senza peli sulla lingua: non ve ne siete accorti? Ci siete forse cascati?

In conclusione, se di vero piano sequenza si fosse trattato, e non dell’ennesimo trucco di grafica computerizzata, si sarebbe anche potuto soprassedere su certe banalità di rappresentazione e sulle molte altre ovvietà della messa in scena, disposti a considerarle come piccole pecche veniali in nome del titanico sforzo di girare un film di due ore in 120 minuti esatti, come altri hanno fatto per davvero, costretti da un errore a ricominciare da capo anche una, due, tre volte (come accadde a Sokurov) pur di non venir meno alla sfida e mantenere fede con onestà al codice etico e morale del piano sequenza. Ma due ore di guerra già vista e rivista, per quanto volenterosi possano essere tutti gli interpreti (tra i quali l’azzeccato protagonista, un George MacKay dal volto attonito e stupefatto che sa giustamente di antico, e i due cammei di Colin Firth e Benedict Cumberbatch), commentate per giunta dalla partitura sgradevolmente chiassosa ed enfatica di un Thomas Newman qui ai minimi storici, meritano di essere dimenticate in fretta. Altro che Oscar.


CAST & CREDITS

(1917); regia: Sam Mendes; sceneggiatura: Sam Mendes, Krysty Wilson-Cairns; fotografia: Roger Deakins; montaggio: Lee Smith; musica: Thomas Newman; interpreti: George MacKay, Dean-Charles Chapman, Mark Scott, Andrew Scott, Richard Madden, Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Claire Duburcq; produzione: Amblin Partners, DreamWorks Pictures, Neal Street Productions, New Republic Pictures; distribuzione: 01 Distribution; origine: USA, Regno Unito, 2019; durata: 119’


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