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Al dio ignoto

Pubblicato il 18 maggio 2020 da Anton Giulio Onofri
VOTO:


Al dio ignoto

La malattia terminale, e in genere il lutto e la sua eventuale elaborazione, sono temi che più e più volte il cinema di ogni epoca ha raccontato e rappresentato con varietà di toni ed intenzioni. Inutile sarebbe qui citare nomi, autori e titoli che a ciascuno torneranno in mente sull’onda del ricordo di esperienze personali abbinate a film visti nei diversi momenti della propria vita segnati purtroppo dal dolore della perdita di un congiunto, di un amico, o di altra persona cara. Neppure inedita è, al cinema, la formula della morte da cui nasce la vita, in nome della circolarità del ciclo naturale che prevede entrambe come tappe culminanti di un percorso a tutti comune, ma anche della morte come esperienza che attraverso il dolore profondo e devastante di un lutto ingiusto e contronatura, come la morte di un figlio o, più in generale, di qualcuno in ancor giovane età per un incidente o per un male incurabile, può condurre ad una accettazione della tragedia elaborata grazie a quell’istintività che ci assimila agli animali, e che ci permette di ricominciare a vivere insieme al peso del vuoto, e a considerarlo come parte "necessaria" di un "qui ed ora" che va comunque affrontato, impossibile da eludere. Di suo, e secondo il proprio paese di origine, il cinema aggiunge uno sguardo strettamente legato alle diverse culture, alle visioni filosofiche o religiose dei vari autori di questa o quella parte del mondo, fornendo ciascuno uno strumento prezioso per riflettere e rimeditare su un mistero di cui mai nessuno saprà farsi un’idea precisa, almeno finché continuerà a far parte della comunità dei viventi.

Al dio ignoto è un film italiano, là dove per italiana si deve intendere quel tipo di autorialità così diversa da regione a regione, un po’ come la cucina ricca e variata, nostro orgoglio e vanto, in cui ogni giorno si esprime la creatività di una nazione che stenta a produrre altrettanta varietà in altre discipline, se non la Moda. Un film italiano, si diceva, firmato da un autore "del Nord", dunque radicalmente distante dalle tinte forti e colorite, prescindendo dai risultati qualitativi, di quegli autori "del Sud", ovvero da Firenze in giù, che forse più vistosamente rappresentano oggi la nostra cinematografia nel mondo: Rodolfo Bisatti, allievo e collaboratore ventennale di Ermanno Olmi, il che ne fa uno di quegli ‘outsider’ che nei circuiti produttivi della penisola godono della visibilità ristretta dei Festival in virtù di un linguaggio più sussurrato e gestualmente meno istrionico e spettacolare. Ma in questi tempi in cui un virus ha massicciamente riavvicinato la gente ad una familiarità comunitaria con il lutto e con la tragedia di una malattia assassina, insomma più in generale con quell’idea stessa della morte che il benessere e l’effimero televisivo avevano oggettivamente appannato nella percezione generale, un film come Al dio ignoto (il titolo è quello di una celebre poesia di Nietzsche) giunge come viatico benedetto per un viaggio senz’altro duro, ostico, a tratti intollerabile dalle radici di un dolore annientante come quello provocato dalla perdita di una figlia adolescente, via via risalendo una china ripida e lastricata di ostacoli, fino a sganciarsi dalle zavorre del lutto e, con l’aiuto del tempo ("grande scultore", come scriveva Marguerite Yourcenar), sollevarsi a respirare di nuovo vivendo gli anni, a volte ancora molti, che restano da vivere. Ma non è solo il tempo che aiuta Lucia (una scarna, essenziale Laura Pellicciari, che con Bisatti ha partecipato alla stesura della sceneggiatura) a superare la morte prematura della figlia primogenita. Spinta forse da un cattolico senso di rinuncia e di autopunizione (fortunatamente Bisatti, che pure non nasconde nel racconto il proprio convinto credo religioso, non lo utilizza come presunta e ricattatoria consolazione), la donna si dedica a prestare le sue cure di infermiera in un hospice per anziani malati terminali di una località del Nord Italia, probabilmente in Sud Tirolo, dove si parla anche il tedesco e la natura avvolge uomini e cose in un verde materno, in serena armonia con le alte vette montane che dall’alto incoronano la scena degli eventi. Con la frequentazione di questi anziani consapevoli e attoniti di fronte al buco nero che prima o poi li inghiottirà, e in particolare di Giulio, un professore cólto e gentiluomo interpretato con poderosa e aggraziata presenza da Paolo Bonacelli, Lucia sarà in grado di apprendere la loro lezione inconsapevole di una saggezza conquistata accumulando anni ed esperienza, e vivendo sul proprio corpo in disfacimento il senso della fine imminente.

Il film di Bisatti, di inedita, aspra durezza per un film italiano di questi anni sedotti e modificati dalla narrazione seriale televisiva, dopo un lungo incipit angoscioso e straziante, progressivamente addolcisce il tiro, e il calvario interiore di Lucia, abbandonata dal marito in seguito al lutto e con un figlio maschio a carico che ha reagito alla morte della sorella chiudendosi in se stesso e nella sua passione per gli sport estremi, si alleggerisce via via in un cammino più agevole verso una recuperata serenità. Strutturato come un Kammerspiel intimista, tutt’altro che cupo e claustrofobico grazie all’alternanza delle ambientazioni tra gli ampi e luminosi interni e il sontuoso parco dell’hospice, e il paesaggio alpino e prealpino còlto in una permanente primavera-estate, Al dio ignoto si snoda in pezzi solistici, e brani a due, tre o più voci, sempre in un tempo tranquillo che in musica corrisponderebbe a un Andante con moto, mentre in colonna sonora rarissimo è l’uso di brani musicali (firmati e intonati da Sajncho Namčylak), che lasciano spazio ai silenzi, ai rumori e al ritmo costante della vita reale, per lasciarla scorrere con il suo flusso naturale e regolare.

Il film è disponibile dal 23 aprile in versione acquistabile o a noleggio, sulla piattaforma Chili.


CAST & CREDITS

(Al dio ignoto); Regia: Rodolfo Bisatti; sceneggiatura: Rodolfo Bisatti, Maurizio Pasetti, Laura Pellicciari; fotografia: Debora Vrizzi; montaggio: Yuki Bagnardi, Rodolfo Bisatti; musica: Sajncho Namčylak; interpreti: Laura Pellicciari, Paolo Bonacelli, Krista Posch, Francesco Cerutti; produzione: Kineofilm Srl; distribuzione: Chili; origine: Italia, 2020; durata: 125’


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