Alpha dog

Alpha dog è prima di tutto la messa in scena di una messa in scena. Protagonista della pellicola, corale come da miglior tradizione del cinema impegnato americano, è una Società che, persa la propria identità reale, non riesce a far altro che ’rappresentarsi’ a se stessa nella costante ricerca di norme di comportamento e regole che facciano, in qualche modo, parte di un codice riconosciuto ed incontrovertibile.
Personaggi alla disperata ricerca di un genere, i protagonisti dell’ultimo lavoro di Nick Cassavetes vivono sulle loro povere spalle il peso dell’impossibilità di una forma di autodefinizione davvero autentica. Essi sono obbligati, da famiglia, società e scuola (che letteralmente non esiste all’interno dello spazio della rappresentazione) a ricercare modelli di riferimento non, come sarebbe auspicabile, nel qui e nell’ora delle loro esistenze, ma nell’’altrove’ irreale, fuori da tempo e spazio, di altre rappresentazioni, siano esse quelle del Cinema (il manifesto di Scarface versione De Palma nella casa di Truelove), della Televisione o del Videoclip. Nell’impossibilità di macerare e maturare la complessità delle loro esperienze sentimentali e personali, i giovani protagonisti del film, non riescono a far altro che cercare maschere da indossare. Sono ragazzini che giocano ai gangster non perché ci sia davvero bisogno di essere tali, ma perché la maschera del piccolo criminale tacita, nella paura della violenza ad essa implicita, le paure più profonde che si porta dentro un adolescente che ancora non può sapere chi è veramente.
Esemplare in questo senso la scena in cui i ragazzi, durante un classico party a suon di droga e sesso, si ritrovano, inconsciamente, a replicare le azioni violente e sanguinose di un videoclip rap ad alto tasso di sparatorie che scorrono su un ampio televisore a 16/9. I due piani in cui è scomposta l’immagine (il balletto sguaiato dei ragazzi e le scene trasmesse dalla televisione) si rilanciano in un gioco speculare di grandissima efficacia concettuale e ci indicano tutto il senso di desolazione di una realtà generazionale che non ha più nessun punto di riferimento, se non quello spettacolarizzato dei mass media, che spinga i ragazzi ad una matura comprensione di se stessi. Di qui anche l’enorme quantità di tatuaggi che ricoprono i corpi dei ragazzi: non solo maschere, ma anche racconti, storie, direttamente incise sulla carne.
Del resto, all’interno della pellicola, i piani della rappresentazione non fanno altro che moltiplicarsi, come l’affollarsi di tanti strati di cipolla sotto cui non è più possibile riconoscere un qualcosa che si possa davvero chiamare ’verità’. Le prime inquadrature del film sono, infatti, finti Super8 che, nel raccontarci ellitticamente e per classici luoghi comuni da filmini di consumo familiari (torte di compleanno, gite, giornate in piscina) l’infanzia di quelli che saranno i protagonisti della pellicola, ci racconta prima di tutto di un mondo in cui ogni azione deve sempre adeguarsi ai canoni di una rappresentazione. Quella felicità che vediamo scorrere tra i colori tenui di una ripresa che sa di vecchio e di memoria a stento trattenuta, non sembra mai essere vera fino in fondo non solo perché si ha sempre il sospetto che essa sia stata ricreata appositamente per il film, ma perchè, complice anche la musica che nelle sue arcane e ambigue melodie ci parla di un’età dell’oro che si trova solo oltre l’arcobaleno, sono gli stessi bambini ad essere obbligati a mimare, ad uso della macchina da presa, una felcità che di fatto già non esiste più se mai è esistita.
Poco oltre il ricorso a finti inserti di interviste ai protagonisti della vicenda che interrompono il libero fluire di un racconto altrimenti classico, aumenta l’impressione di menzogna ovunque imperante. Nel raccontare una storia vera il cinema dichiara a piene lettere il suo statuto finzionale: è un bugiardo che gioca con le sue stesse mezze verità lasciando costantemente lo spettatore in uno statuto brechtianamente ambiguo che funziona soprattutto in quelli che dovrebbero essere i luoghi deputati alla commozione e alla totale immedesimazione. Pensiamo alla scena in cui, subito dopo il consumarsi atroce del delitto, viene inserito lo spezzone di un’intervista alla madre del ragazzo ucciso. La portata catartica della più classica delle scene madri (resa sublime dall’interpretazione di Sharon Stone) viene problematizzata dal fatto che l’attrice, nascosta sotto pesanti strati di cerone, è resa quasi irriconoscibile al pubblico che, per qualche secondo può avere l’impresione di trovarsi di fronte alla vera madre del vero Zack.
Nel raccontare un mondo che si mette in scena, il regista aumenta la posta della sua scommessa d’autore confondendo le carte della distanza narrativa. A chi si rivolgono gli attori durante le loro finte interviste? Sotto quale sguardo si compone il resto del film? Chi ne è il narratore? A quale pubblico si rivolge?
Per raccontare una storia vera Cassavetes, che si avvale di un cast straordinario, finge di usare gli strumenti del documentario, usa la finzione per cercare di approdare se non alla verità, almeno alla sua verità. Nel far questo obbliga lo spettatore a fare i conti con la sua posizione vojeuristicamente passiva. Lo fa riconoscere nel suo desiderio di assistere alla morte del ragazzo, lo mette in quella frangia di curiosi che non attendono che l’esibizione televisiva del dolore, ma poi gli impone di riconoscersi quale corresponsabile dell’orrore. Perché la sua, la nostra indifferenza è quel sonno della ragione che genera quei mostri. Perché se a quei ragazzi sfugge di mano la situazione è perché a nessuno di noi è venuto in mente di insegnare, sia pure solo con l’esempio vivente, che ogni azione porta le sue conseguenze e che esiste una linea che deve necessariamente separare il lecito dall’illecito, il giusto dallo sbagliato. E quando di fronte alla morte quelle maschere cadono e quei tatuaggi si sperdono nel buio, non resta che un bambino di fronte ad un’azione che non sa neppure di avere commesso.
(Alpha dog); Regia e sceneggiatura: Nick Cassavetes; fotografia: Robert Fraisse; montaggio: Alan Heim, Shawn Broes; musica: Aaron Zigman; interpreti: Emile Hirsch (Johnny Truelove), Justin Timberlake (Frankie Ballenbacher), Anton Yelchin (Zack Mazursky), Shawn Hatosy (Elvis Schmidt), Ben Foster (Jake Mazursky), Sharon Stone (Olivia Mazurky), Dominique Swain (Susan Hartunian), Harry Dean Stanton (Cosmo Gadabeeti), Bruce Willis (Sonny Truelove), Chris Marquette (Keith Stratten), Lukas Haas (Buzz Fecske), Vincent Kartheiser (Pick Giamo); produzione: Sidney Kimmel Entertainment, A-Mark Entertainment, Alpha Dog LLC, VIP 2 Medienfonds; distribuzione: Moviemax; origine: USA, 2006; durata: 120’; webinfo: Sito ufficiale
