Amabili resti

Dopo la trilogia de Il Signore degli anelli, la vera sfida, per Peter Jackson era realizzare un altro film.
Un successo planetario con annessa valanga di Oscar è un po’ come cadere da cavallo: o rimonti subito in sella anche a costo di ruzzolare di nuovo, oppure ti tocca, come Cameron, aspettare dodici anni per ritrovare la strada dello schermo e, si spera, del botteghino.
Tra Il Signore degli anelli e Amabili resti c’era, in effetti, passato di mezzo anche King Kong, ma ci è difficile pensare a quel film impazzito come ad un qualcosa venuto davvero “dopo” e davvero “contro” il capolavoro fantasy dell’autore neozelandese. In parte perché l’idea era vecchia ed affondava nei sogni d’infanzia dell’autore, alle origini, quasi, della sua vocazione al far cinema; in parte perché era evidente che Jackson rifaceva in quel momento Cooper & Schoedsak solo perché coccolato dalle lusinghe degli studios che vedevano in lui una nuova gallina dalle uova d’oro. King Kong, il nostro, lo poteva realizzare solo con la riserva di benzina sopravvissuta all’immane fatica tolkieniana e solo in quell’ambiguo interspazio tra il successo insperato e il dopo fumoso. Avesse aspettato qualche anno e magari un altro film e anche i produttori più coraggiosi si sarebbero tirati indietro di fronte ad un film che, nel post 11 settembre, racconta già la crisi economica e mette in scena, in piena nostalgia, i ragni giganti e i dinosauri più inattuali.
Sicché King Kong ci pare ancora un’appendice de Il Signore degli anelli. Nasce dalla sua costola produttiva e ne riprende il tono ed alcuni temi: il gioco delle dimensioni cangianti (il gorilla gigante e l’uomo lillipuziano), l’idea di un viaggio andata e ritorno nel fantastico che sfuma nella consapevolezza che ogni ritorno da quell’immane viaggio è impossibile e così via.
Amabili resti è, quindi, il primo vero e proprio film jacksoniano dopo la saga tolkieniana ed ha tutte le caratteristiche dell’opera di chi rimonta a cavallo sfidando la paura di una nuova caduta (paura che per intenderci c’era anche in King Kong ma era più paura di sfigurare rispetto al prototipo che di raccontare e basta). Come film post Tolkien, la nuova opera jacksoniana si affanna ad essere prima di tutto “contro” il suo più diretto predecessore. Se Il Signore degli anelli metteva in scena un’epica di immani proporzioni, Amabili resti si concentra nel chiuso di una piccola famiglia americana; se la trilogia metteva al centro un antagonista assoluto (il male dell’anello in tutte le sue forme), il nuovo film sonda la terribile banalità di un male che prende, invece, la forma rassicurante di un vicino a guardarlo un po’ strano, ma non così terribile; se il capolavoro tolkieniano cercava, nell’orrore della guerra il senso dell’eroismo (che è anche nel riuscire ancora a raccontare nonostante il sangue che ci scorre affianco come insegnava Sam nel magnifico finale di Le due torri), qui si cerca nelle pieghe di un quotidiano tranquillo, lontano già dalla guerra fredda e lontano ancora dagli attentati terroristici di matrisce islamica (anche se le Olimpiadi di Monaco erano cronologicamente a due passi).
Soprattutto la grande differenza sta nel sostanziale abbandono dell’unità di azione: mentre la trilogia, infatti, fondava tutto il suo senso sull’asse di direzione fornito dal viaggio per la distruzione dell’anello, qui, invece, consumatosi il delitto che quasi apre la pellicola, è tutto un viaggiare senza direzione in un frantumarsi di certezze ben esemplificato dalla sublime scena del naufragio delle navi in bottiglia.
Susie, persa nel limbo tra un non più e un non ancora, si perde tra il bisogno di vendetta e l’esigenza di prendersi ancora cura dei suoi cari. La madre affoga il suo dolore nella stanza della figlia fatta tomba muta di un’impossibilità a lasciar andare che si esprime addirittura con l’abbandono della famiglia. Il padre continua le ricerche e si fa sordo ai bisogni degli altri in una rabbia muta che gli si ritorce contro. La sorellina non capisce le contraddizioni tra la delizia del nuovo amore appena sbocciato con un coetaneo e il suo aderire alla sottotrama thriller che la porterà ad intrufolarsi nella casa dell’assassino e a scoprire il mistero.
Sono questi gli amabili resti che danno il titolo al libro e poi al film. Resti di affettività che hanno perso direzione dopo il lutto e che si affannano nel limbo un po’ come i personaggi de Il Signore degli anelli dopo la distruzione del male che continuano a vivere senza aver più veramente un perché. Anzi a ben guardare, dopo aver colto le macroscopiche differenze tra il nuovo film e il suo diretto precedente, non può non colpirci la consapevolezza che, da un punto di vista poetico, Amabili resti non è altro che l’immenso post finale di Il ritorno del re gonfiato a film unico ed autonomo. In entrambi i casi c’è una ricerca senza più un senso. In entrambi i casi le azioni si sfaldano nelle contraddizioni di uno sfinimento sublime. In entrambi i casi c’è la fatica a rimettersi in marcia, a ripartire da zero o quasi.
Amabili resti va oltre e sperimenta di più. È una sfida produttiva meno impegnativa (nasce come film d’autore e non come blockbuster), ma è una sfida artistica ben più significativa. Racconta un tema che non sarebbe dispiaciuto ad un Bergman (l’elaborazione di un lutto incomprensibile, un gruppo di personaggi sconvolti dal silenzio di Dio), ma lo coniuga nei modi di un film che non dimentica, né vuole farlo, le regole del cinema di puro intrattenimento. E, affannato dietro le contraddizioni delle anime messe in scena, diventa, come loro, squilibrato, slabbrando i confini dei generi precostituiti e contaminando con precisione il thriller alla commedia adolescenziale (sublime la primissima parte del film), il film paranormale al dramma familiare. Il tutto sempre sopra le righe in un film che potrà dispiacere a chi cerca la consolazione di facili certezze e percorsi lineari, ma che colpisce per i suoi salti di tono ricercati, per la sua delicatezza e per il ritmo piano e possente con cui si dipana non un racconto, ma un caleidoscopio di affetti, di storie da sviluppare un po’ alla volta come i rullini di Susie rimasti in scatola, di emozioni incontrollabili e contraddittorie. Di amabili resti, appunto.
(The lovely bones); Regia: Peter Jackson; sceneggiatura: Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson, dal romanzo omonimo di Alice Sebold; fotografia: Andrew Lesnie, ASC, ACS; montaggio: Jabez Olssen; musica: Brian Eno; interpreti: Saoirse Ronan, Mark Wahlberg, Stanley Tucci, Rachel Weisz, Susan Sarandon, Rose McIver; produzione: Dreamworks Pictures, Wingnut Films, Key Creatives; origine: USA/Gran Bretagna, Nuova Zelanda, 2009; durata: 135’
