Americana - Hung. Ragazzo squillo

“Sta cadendo tutto a pezzi. Ed è cominciato tutto qui a Detroit… La sorgente del fiume del fallimento. Grazie a Dio, i miei non sono più qui a vedere il loro amato paese mentre affoga nella merda. Loro erano orgogliosi di essere americani. Avevano un lavoro normale e dei guadagni normali. Erano inseriti. Non venivano presi a calci in culo tutti i giorni dalle tasse di proprietà, dalle associazioni dei proprietari immobiliari e da avide ex-mogli reginette di bellezza. Cosa gli direi se mi vedessero adesso?”. Ray Drecker
Partiamo da un concetto semplice e largamente condiviso. Il prodotto seriale americano è per sua natura qualcosa di interessante. Capace cioè di attirare l’attenzione del proprio interlocutore al di là dell’effettiva considerazione o qualità dell’oggetto visionato. Questo, contrariamente a quanto molti credano, non si deve solo alla ben nota capacità di scrittura dei writers d’oltreoceano, elemento di eccellenza difficilmente eguagliabile nel mondo, o alla capacità figurativa dei tanti professionisti del settore, per lo più cresciuti e plasmati sulle forme della recente tv. Ma è anche il risultato di un investimento costante dei principali network americani teso a favorire, con sempre più insistenza e coraggio, l’utilizzo di un elemento ormai ritenuto indispensabile per la tv contemporanea: il “fattore sorpresa”. Se questo costituiva infatti già negli anni addietro un elemento di positiva estraneità della tv americana (rispetto a quella degli altri paesi) e in particolare della loro innovativa serialità, è facile intuire quanto il medesimo fattore possa essere determinante oggi all’interno di un mercato ormai saturo di prodotti destinati a ricalcarsi e sovrapporsi con sempre più frequenza. Un secondo concetto dal quale è doveroso passare poi, prima di affrontare l’oggetto del nostro discorso, riguarda principalmente la specifica capacità che lo stesso lavoro seriale americano contemporaneo ha di saper raccontare il proprio tempo molto più di quanto abbia fatto in passato e di quanto riesca attualmente a fare quello degli altri paesi (Inghilterra a parte), riuscendo oltretutto ad entrarvi ogni volta da porte d’ingresso differenti e sempre con uno sguardo nuovo, originale ed interessante. Contrariamente a quanto avviene da noi infatti dove la serie televisiva, la miniserie o il film tv, rimane prevalentemente in una dimensione finzionale, distante non solo dalla contemporaneità stretta ma anche dalla eventuale rappresentazione della stessa, negli States l’influenza della cosiddetta way of life si ripercuote con molta più facilità nella televisione. Anche in quella di qualità e anche in quella cosiddetta di fiction. La serie perciò, si ritrova molto spesso a fare da eco ad elementi fondamentali della vita americana, esaltandone talvolta gli effetti o altre volte mettendo in mostra i risultati provocati da una quotidianità pressante.
Degno rappresentante della duplice tendenza sin qui descritta ed espressione più recente di un certo nuovo sperimentalismo televisivo, Hung si presenta come un lavoro tipicamente americano. Innanzi tutto per il coraggio dei suoi ideatori nell’esplorare nuove vie e successivamente per quella sua connaturata predisposizione a raccontare, seppur indirettamente, un certo tipo di condizione sociale non proprio edificante a cui la recente crisi economica (nata e diffusa proprio negli Stati Uniti) sembra aver dato la spinta definitiva (i primi tre minuti della serie sono particolarmente esplicativi). Questa nuova serie ideata dalla coppia Dmitry Lipkin/Colette Burson e griffata dal marchio di qualità HBO, ci racconta infatti una storia semplicissima che ha per protagonista l’uomo medio d’America, il classico individuo di mezza età, con un passato da eterna promessa sportiva ed un amaro presente da uomo semi-fallito, con tanto di matrimonio interrotto alle spalle, due figli stravaganti e problematici ed un mediocre impiego come coach di basket nella scuola di zona. I dieci episodi che compongono questa prima stagione ci portano così a conoscere dapprima la condizione difficile del protagonista Ray Drecker, l’inesorabile suo declino di fronte ai problemi che di colpo affliggono un cammino già di per sé farraginoso per poi, in corso d’opera, mostrarci il tentativo di riscatto dell’uomo, improvvisamente spinto e rinvigorito da un insperato spirito di sopravvivenza. Lo stesso che ogni essere umano trova nella disperazione e che permette al nostro protagonista di intraprendere un cammino salvifico particolarmente compromettente e delicato. Quando infatti ogni cosa, sia simbolicamente (il rapporto con la famiglia, il lavoro) che materialmente (l’abitazione), comincia a crollare attorno al protagonista, quando l’oscurità comincia a farsi tremendamente opprimente e Drecker non sembra riuscire a vedere nemmeno il più piccolo barlume di luce davanti a sé, ecco che dal nulla “emerge” come d’incanto l’unica sua dote effettiva, alla quale aggrapparsi con forza per risalire da una condizione di precarietà sempre più dilagante e sulla quale investire con coraggio e con una certa dose d’incoscienza. Come molti di voi avranno intuito traducendo il titolo della serie (che si presta oltretutto a varie interessanti considerazioni) o come altri invece avranno scoperto vedendo le puntate sin qui trasmesse in Italia, non siamo di fronte a doti particolarmente elevate, di natura morale o intellettiva. Quella di Drecker non è altro che una dote fisica evidente, nascosta e intima. Una dote sinora trascurata ma potenzialmente molto redditizia che lo porterà, dopo aver frequentato un improbabile corso di sviluppo delle singole capacità imprenditoriali, a decidere di intraprendere, all’insaputa dei suoi cari e conoscenti vari, la professione del gigolò (“Devi fare del tuo meglio con ciò che Dio ti ha donato”). Con tanto di tariffario, labile quanto il coraggio e la spudoratezza del timido protagonista, e di pappone al femminile, la simpaticissima coprotagonista della serie che dopo essersi resa conto al pari di Drecker della propria miserrima condizione, si convince e convince l’uomo ad avviare la losca attività. Non prima però di aver testato personalmente la qualità della merce in vendita.
Ed è proprio su questa decisione dei due e sulla loro raffazzonata strategia commerciale che si basa in sostanza l’essenza di una serie particolarmente ricercata come Hung. Una serie che potremmo definire minimale per la sua asciutta impostazione (narrativa, visuale) ma a cui si potrebbe ricollegare altresì una insita volontà di cambiare la direzione della serialità comune attraverso una sorta di rovesciamento del concetto di entertainment. Tale tentativo si può riscontrare ad esempio nella impostazione di un racconto che non procede per compartimenti, ovvero per singole sezioni narrative affidate all’involucro convenzionale dell’episodio (si potrebbe fare l’esempio di Weeds, una serie originale come Hung ma connotata, diversamente da questa, su forti segmentazioni interne), ma che invece sente la necessità di mostrarsi interamente al suo spettatore evidenziando, tramite un intreccio di fili e trame in continua evoluzione, più che i frammenti di una vita vissuta, un intero percorso basato fondamentalmente sull’umanizzazione e la decostruzione di un procedimento narrativo ormai classico. Dove per classico si intende il ricorso sempre più costante nelle serie televisive odierne a estremismi, sottolineature, accentuazioni e ridondanze varie. L’aspetto originale di Hung risiede proprio nella negazione di questo procedimento di spettacolarizzazione in favore di una evidente normalizzazione dell’insieme. Già la sigla, in questo, potrebbe essere intesa come una sorta di allegoria essenziale ed efficace del concetto se alla denudazione del protagonista in cammino per le vie della città (con tanto di tuffo finale) si accostasse oltre alla metafora di un evidente cambiamento di vita operato dal protagonista attraverso “il corpo”, anche il più articolato concetto di simbolica svestizione dagli abiti della classicità operata dagli autori nei confronti di un’opera pensata e realizzata differentemente dalle altre. Hung è quindi qualcosa di diverso, di innovativo o per meglio dire qualcosa che si scopre diverso. Strada facendo. La sua natura infatti emerge solo dopo aver strizzato l’occhio ad una impostazione consuetudinaria (dopo la prima cliente ci si aspetterebbe infatti il susseguirsi di un’infinita varietà di esperienze sessuali-professionali più o meno ripetitive) e aver dato l’impressione di voler percorrere strade già battute (Californication?) quasi a voler coinvolgere e sorprendere, così facendo, la visione di un certo tipo di spettatore. Fatto che puntualmente avviene nel momento in cui un proliferare di temi interessanti ma stonati rispetto al contesto, come l’intensificarsi del rapporto d’amicizia tra i due soci-protagonisti o il difficile rapporto tra lo stesso Drecker e il particolare sfondo economico-sociale che l’accompagna o ancora come l’improvviso quanto surreale innamoramento dell’uomo nei confronti di una sua cliente, emergono improvvisamente dall’insieme per scandire i tempi compassati di una narrazione senza dubbio diversa e originale. Proprio perché reclamiamo tale diversità di Hung non possiamo tuttavia esimerci in conclusione di rimarcare la mancata compiutezza di un prodotto la cui consistenza sembra talvolta risentire il peso del ruolo anticonformista a cui aspira. In certi tratti il ritmo compassato a cui si accennava precedentemente prende troppo il sopravvento soffocando eccessivamente il respiro di un racconto per questo singhiozzante. I momenti di assoluta intensità presenti nella serie, in cui l’ironia non appare mai gratuita, in cui l’intelligente dissacrazione vuole andare a scalfire i problemi e la negatività imperante nella società e in cui la leggerezza si accompagna costruttivamente a riflessioni profonde sulla condizione esistenziale dell’essere umano, non bastano talvolta a scuotere attimi isolati in cui invece il torpore, la poca ispirazione in fase di sceneggiatura e una eccessiva ostentazione della cosiddetta “scelta” stravagante (l’inserimento di momenti morti, altri senza un senso concreto, altri ancora poco funzionali al racconto stesso) si affermano in maniera prepotente e altrettanto prepotentemente oltrepassano lo schermo. Una mancanza che proviene, come detto, solo ed esclusivamente dalla volontà di spingere sull’acceleratore dell’innovazione (secondo l’imperativo di una casa all’avanguardia in questo come HBO) e che per questo motivo può essere sorpassata tranquillamente. Soprattutto in previsione di stagioni future probabilmente più accurate, rodate e ancora più ricercate dell’attuale. Non ci resta che attendere.
