Americana – Californication
Si è aperta con You Can’t Always Get What You Want dei Rolling Stones questa serie presentata dalla Showtime, sullo sfondo il canto celestiale delle voci bianche che aprono la canzone, un coro che viene tranciato di netto assieme alla sigaretta che Hank Moody (David Duchovny) getta in un’acquasantiera all’ingresso di una chiesa dagli interni bianchi inondati di luce e silenziosamente deserti, nei quali è entrato per confidare i propri tormenti a quello che lui definisce come il Grande capo. Subito, però, l’uomo viene avvicinato da una giovane suora, la testa coperta come è consono alle spose di Cristo, ma inaspettatamente sensuale col suo volto truccato. Alla donna Hank rivela di avere «Quella che lei chiamerebbe una crisi di fede: in poche parole non riesco a scrivere», lui raffinato artista della parola che ha lasciato New York per Los Angeles; lei gli risponde che conosce la cura per le sue pene: un bel favore che va sotto il nome di ’blowjob’. Si scioglie i capelli e gli si avvicina e, come in una miracolosa apparizione, tornano gli Stones con la coda del loro magnifico brano: ora le voci bianche diventano un coro di Hallelujah che, grazie alle immagini, fornisce un nuovo significato al termine ’misticismo’, in quanto esaltazione della carne in un trasporto nell’Eros e nella sua contemplazione per raggiungere una realtà superiore e più intima.
Can’t you always get what you want? Hank si sveglia in un letto, piuttosto sorpreso da una testolina bionda che spunta da sotto il lenzuolo, la stessa che nel sogno gli aveva promesso di portarlo nelle lande del piacere e che sta qui tenendo fede alla parola data, un dolce risveglio per ringraziare quell’uomo che più volte le ha donato l’orgasmo che il suo maritino non ha mai saputo regalarle. Mentre Hank Moody (dove il cognome in inglese significa ’lunatico’) è un ultraquarantenne in piena crisi di mezza età, attratto dalle donne non disponibili (almeno secondo il suo unico amico, l’agente Charlie), ma ancora innamorato di Karen (Natascha McElhone), la madre della loro adorata figlioletta, l’adolescente Becca; un uomo che ancora insegue la donna che non ha mai voluto sposare e che ormai già da tempo convive col ricchissimo Bill, cauto e tranquillo spilungone che è l’opposto del caotico Hank.
Californication esordì nel marzo del 2008 su Jimmy, approdando poi su Italia 1 nell’autunno successivo; il canale di Mediaset sta in questi giorni trasmettendo la nuova stagione, per la precisione il mercoledì in seconda serata.
È alla penna di Tom Kapinos che dobbiamo quest’opera alquanto pregevole: già sceneggiatore e show runner di vari episodi di Dawson’s Creek nel periodo 2000-01, ha qui dato vita a un lavoro che ha affermato essere assai personale, come una panacea per le miserie lavorative arrecategli dall’esperienza nel teen drama di Kevin Williamson, utile questo più che altro in quanto addestramento per il suo lavoro in televisione (fonte: Televisionando.it). Comunque Californication assume i contorni dello sfogo continuo per una rabbia che viene irrorata da un profondo senso dell’ironia, sarcasmo in quanto modus vivendi per una vita alla maniera di Hank, protagonista assoluto assieme a un grande Duchovny all’interno di un buon ensemble di personaggi, filtro attraverso il quale è possibile osservare le splendide meschinità del bel mondo losangelino in una città dove «Fai la mossa sbagliata e finisci a leccare culi» (nel senso di passare in secondo piano), come saggiamente pronunciato da una giovane attrice porno nell’episodio 2.2. Una metropoli che è terra di conquista per i più scaltri e nella quale il romanzo più famoso dello scrittore ’underground’ Hank Moody, ossia Dio ci odia tutti, è diventato il film campione d’incassi Quella folle dolce cosa chiamata amore con Tom (Cruise) e Katie (Holmes). Perché Hollywood è una Babilonia dove solo i cattivi ragazzi vanno in Paradiso: «Sono venuto da New York per una giusta causa e questa città mi ha affossato» (2.2), come Hemingway capace solo di disprezzare la Mecca del Cinema. Perché L.A. è Hell-A, come il magazine per il quale Hank inizialmente tiene un blog per poter sopravvivere, mordace fustigatore di costumi, lui fallito e immerso fin dentro il collo nella sporcizia che lo circonda, ciononostante più puro di tanti altri, lui che odia il modo di parlare moderno fatto di abbreviazioni che mortificano l’inglese, un ragazzo analogico in un mondo digitale, come gli dirà una giovane fiamma di una notte. Hank è presuntuoso e addolorato, il suo aspetto è stropicciato e affascinante quanto basta perché tante bellissime donne cadano ai suoi piedi, creature con le quali intrattiene rapporti improntati al sesso più o meno ginnico, ma sempre con profondo rispetto, compresa una sorta di amore idealista da Don Chisciotte verso la Donna in quanto tale (una Dulcinea o tante Dulcinee: «È un fatto istintivo, primordiale: quando vedo una donna nei guai reagisco, senza pensare, intervengo» dirà in 2.3). Secondo la figlia il suo nichilismo si accompagna a un evidente romanticismo, mentre per Karen lui ha sempre una risposta pronta, una scusa qualunque per dimostrare che non è mai responsabile. Certamente Hank è assai vicino a Charles Bukowki, ironicamente autodistruttivo e autore di scritti che hanno come fonte dati autobiografici. Peccato, però, che la pagina bianca domini la sua vita da cinque anni, conseguenza di un cortocircuito tra arte ed esistenza.
Californication, ossia ’Californicazione’, come nella canzone dei Red Hot Chili Peppers: il sesso al centro del mondo, un gioco che a volte si fa serio, una liberazione forse, comunque all’interno di una finzione di plastica che è quel mondo che Hank disprezza, uomo di mezza età rimasto legato agli anni Settanta. Intorno a lui sigarette (simbolo di sicura trasgressione su di un odierno schermo televisivo, in particolare se americano), spinelli, alcool, medicine, cocaina, sesso anche compulsivo e spesso grottescamente ridicolo, rapporti di dominazione e un linguaggio sboccato appena un po’ attutito dal doppiaggio italiano: tutto perché la Showtime ancora una volta vuol sfidare i limiti del visibile televisivo, come già in Weeds e Dexter, anche se qui è molto più facile immedesimarsi in Hank, tipico antieroe e personaggio più tradizionale in un impianto comunque classico che cerca l’equilibrio tra caos e stabilità, giocando con quei limiti, ripetutamente, quasi come se tutto fosse programmato in anticipo, un po’ infischiandosene della fondamentale importanza ricoperta dalla ricerca della libertà che, per suo statuto, non cerca una meta prefissata, necessario ciò affinché si possa essere accompagnati da una speranza ancora più piena e completa nei confronti del nuovo e dell’imprevisto.
Un ragazzo degli anni Settanta intorno al quale il mondo corre veloce, quindi, tutto racchiuso in episodi compresi nel breve attimo di una mezzora scorrevole come un fiume in piena e dove la realtà, almeno per Hank, è a volte attraversata da sogni a occhi più o meno aperti, desideri che sono le fantasie di un artista e di un uomo represso, i suoi ricordi, come palesato attraverso la bella sigla iniziale, dove immagini di Venice in stile Super8 procedono accelerate al pari delle inquadrature su Hank e le sue due donne, sfera privata segnata in primo piano dalle note tese di una chitarra elettrica e nervosa che suona un rock che è un vortice che tutto ingoia, degno emblema di Hell-A e della commedia umana che viene messa in scena da Californication.