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AMITYVILLE HORROR

Pubblicato il 16 agosto 2005 da Alessandro Izzi


AMITYVILLE HORROR

Partiamo da una considerazione di merito che si è di fatto resa obbligatoria prima di qualsiasi considerazione estetica: per troppo tempo, di fronte ai frutti della produzione cinematografica americana horror pervicacemente incentrata nello sfornare remake o sequel di vecchie e nuove pellicole, la critica - non solo nostrana - ha limitato la sua azione nei raggi asfittici della semplice ironia. Per troppo tempo si è parlato di una moda fugace, di una crisi di identità o di una perdita di fantasia senza che a qualcuno sia venuto in mente di prendere sul serio in considerazione la possibilità che dietro quella che è certamente una ben calcolata strategia di marketing non si nasconda anche una precisa scelta estetica e, diciamolo pure, ideologica. Dopo la visione di Amityville horror che segue con buona grazia tutta la messe di remake come Non aprite quella porta e The ring (messe che, sia detto per inciso, ha prodotto almeno una piccola splendida perla: The ring 2 di Hideo Nakata), si impone, quindi, un necessario bisogno di riflessione. Anche perché è ormai sotto gli occhi di tutti che l’operazione portata avanti dalle produzioni americane non è soltanto quello di riproporre al nuovo pubblico adolescenziale le storie che hanno fatto la gloria (e il successo al botteghino) del passato, ma un vero e proprio bisogno di rileggere, riadattare, ridisegnare, quasi, i vecchi racconti alla luce di una consapevolezza tecnica del tutto nuova. L’operazione portata avanti, insomma, non è semplicemente quella della trasposizione di un vecchio testo in un nuovo contesto, quanto, piuttosto, è un lavoro che parte dal bisogno di variare, ibridare, mescolare le carte del racconto all’interno di una confezione generalmente più compatta di quanto non fosse per i vecchi film da cui si trae spunto/ispirazione/plagio. Un lavoro che avviene prima che in fase di ripresa, direttamente in sede di scrittura della sceneggiatura laddove gli autori (ora profondi conoscitori della storia del genere come insegnato dal modello vincente di Williamson) sono chiamati non solo a dare una mano di vernice nuova al vecchio racconto, ma anche a cercare al suo interno possibili “innesti” con altri “testi”. In sede di scrittura, il lavoro dello sceneggiatore si accomuna, quindi, a quello del filologo che amorosamente rispolvera i vecchi film del passato per prepararsi a gettarvi su nuova luce, ad innervarli di nuova linfa. Anche Amityville horror non sfugge alle regole del genere ed introduce a bella posta nel racconto elementi e figure che erano del tutto assenti nella vecchia pellicola come il personaggio della babysitter chiusa nell’armadio che ricorda tanto da vicino personaggi alla Halloween di Carpenter. Altrove vengono semplificati (anche troppo) i contributi di alcuni personaggi come nella ingloriosa fuga del parroco che si disinteressa codardamente delle sorti della famiglia mentre nell’originale affrontava la morte pur di tentare di aiutare i poveri malcapitati. Il problema di questo lavorio di ibridazione e variazione, di rimescolamento incessante è che, innestando tutto in tutto si perde di vista la specificità e il valore intrinseco delle vecchie pellicole. Se tutto diventa uguale a tutto, allora non ci sono più valori o significati esperibili in maniera “unica”. Il post moderno trionfa, insomma, nello svuotamento dell’oggetto amato, nella sua riduzione a mero meccanismo che può essere riproposto al pubblico per la sola, semplice, ma ottima ragione, che nessuno ha più davvero memoria dell’originale. Le vecchie generazioni possono, certo, correre al cinema sull’onda di un effetto nostalgia, ma le nuove vi si recano solo alla ricerca della ben congegnata successione di spaventi. L’ondata di sequel e remake, insomma, è resa possibile soltanto dal fatto che i nuovi film si rivolgono, ormai, ad un pubblico senza storia, un pubblico televisivo il cui grado di coscienza dei capolavori del passato è ormai ridotto a zero. Ed è proprio in questo impasse che il postmoderno (che è pur sempre atto d’amore consapevole verso il passato) diventa mercato. Un mercato di storie senza Storia che deve, per forza di cose, perdere ogni contatto con il proprio presente per essere consumato senza troppe preoccupazioni da una folla di teen-agers festanti. Amityville horror, che nell’originale si poneva nel solco di pellicole intente a cogliere con freddezza rivoluzionaria la dissoluzione dell’organismo familiare, diventa, ora, magnificazione reazionaria della famiglia e dei suoi valori aggiunti. L’ambiguità che permeava le immagini del vecchio film e che ci faceva credere nel non rassicurante pensiero che non esistono case cattive, ma solo persone cattive (obbligandoci a scendere a patti con la nostra eterna responsabilità nei confronti degli altri) si scioglie nell’immagine finale della famigliola (organismo felice e sano a priori) che fugge dalla magione malefica. Il Male diventa, insomma, identificabile, circoscrivibile, indicabile, e, alla fine, evitabile. Persino il sottotesto culturale tipico dei racconti di possessione americana (la casa sorge su un cimitero indiano, luogo di tortura di pellirossa) che materializza il senso di colpa sociologico della realtà statunitense nei confronti degli indigeni, perde qui ogni connotazione e diviene puro e semplice accidente narrativo: un mero motore per muovere l’intreccio. Ed è qui che, con dolore inconsapevole, il post moderno riduce, alla fine, l’oggetto amato proprio nel suo inutile contrario. La fine ingloriosa del genere più consapevolmente politico che il cinema abbia mai prodotto.

(The Amityville horror); Regia: Andrew Douglas; sceneggiatura: Scott Kosar, Sandor George; fotografia: Peter Lyons Collister; montaggio: Roger Barton, Christian Wagner; musica: Steve Jablonsky; interpreti: Ryan Reynolds, Melissa Gorge, Jesse James, Jimmy Bennett, Chloe Moretz, Philip Baker Hall; produzione: Michael Bay, Andrew Form, Brad Fuller; distribuzione: Buena Vista

[Agosto 2005]

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