Arrivando a "Il Caimano"

Forse per quella linea di significati e significanti che attraversa tutto il suo cinema o per quel flusso di parole, anatemi, sproloqui e monologhi che dal 1976, data di uscita di Io sono un autarchico, ad oggi, Il Caimano, costituisce, e continua a farlo, quell’insieme di idee ed illusioni, spesso tradite, ma ugualmente rimpiante, o forse, più semplicemente, perché il suo cinema è un cinema che non cerca artifizi, di nessun genere, ma che porta avanti con coerenza e schizofrenica lucidità un discorso critico sulla genetica, ormai modificata, della nostra società, che amo i film di Nanni Moretti.
Pur trattandosi di un cinema che cela la sua complessità dietro un’apparente trasparenza e semplicità tecnica ed espressiva, le pellicole di Moretti riescono, proprio per questo, a far deflagrare l’intricato paradigma di concetti e contenuti, facendo leva e poggiandosi su costruzioni strutturate al fine di lasciare che siano i significati ad emergere in modo quasi naturale e spontaneo, senza accorgersene. Ci si ritrova, allora, alla fine della visione, colpiti da un qualcosa di indefinibile, da una sorta di macigno semantico che spiazza e coinvolge, che entusiasma o disgusta, che germina senza mostrarsi in modo esplicito all’interno della coscienza di noi spettatori. I silenzi e le pause espressive, solo apparenti, fungono da metronomo, assegnando i tempi giusti di una narrazione che solo in apparenza può sembrare, a volte, priva di una linearità espressiva ma che, al contrario, risulta costruita con un’esattezza metrica assolutamente funzionale al continuum logico delle pellicole.
Vengono in mente i tratti dei personaggi che in questi trent’anni hanno costituito il cinema del regista di Brunico. Personaggi che incarnano, insieme, eco e manifestazione di trent’anni di storia culturale, politica e sociale del nostro paese. Nello straniamento raccontato, pare che nulla sia cambiato, ma che, al massimo, si sia assistito ad una evoluzione non negli effetti ma nelle cause di questo straniamento che, dai giovani di Ecce Bombo (1978), ritratti come fossero in “un acquario”, è giunto ad investire anche l’età più adulta. Ci troviamo di fronte, allora, al Michele Apicella di Sogni d’oro (1981), regista di successo, colpevole, ma alla fine assolto, di eccessiva cerebralità, del cui disfacimento psichico, che giunge sino alla trasformazione onirica in licantropo, siamo testimoni, o al Michele Apicella di Bianca (1984), professore esasperato dalla ricerca di un progetto armonico cui confrontarsi, o al Michele Apicella di Palombella Rossa (1989), dirigente pallanuotista del PCI, la cui perdita di memoria è riflesso di una condizione esistenziale irrisolta, di una identità smarrita in tutti gli aspetti del suo vivere. In una ipotetica carrellata visiva dei personaggi Morettiani sarebbe la dissolvenza incrociata continua la scelta espressiva migliore per rendere quell’insieme di sfumature ed accenti che il regista ci ha offerto nei suoi film.
Scegliendo, poi, di riflettere sull’attesa generatasi per l’uscita de Il Caimano, sulla curiosità per le reazioni successive alle prime proiezioni e, soprattutto, sulla constatazione di quanto sia vano ed illusorio l’aspettarsi una reazione civile e culturale di cui è, ormai, divenuto lecito dubitare, assume un significato laconico quel “ è sempre tempo di girare una commedia” che Moretti pronuncia nel suo ultimo lavoro, perché, parafrasando la sequenza del film, ormai i contenuti rimangono come velo trasparente, messi troppo in disparte per attaccare quella costruzione statica, priva di osmosi tra giustizia e moralità, che sembra ormai essersi impossessata della società italiana. Viene spontaneo, allora, ripensare ad Aprile (1998) e chiedersi cosa sia cambiato in dodici anni, da quel 1994 che segna la vittoria di Berlusconi, nel nostro bel paese, se è ancora necessario e grida allo scandalo un film che ripercorre la genesi di un potere economico, divenuto anche politico, per chiedersi, ma solo per qualche breve attimo, la legittimità e la legalità, tralasciando principi e valori, di una situazione che in modo parodistico, valicando anche i confini di un infantilismo, dimentico della genuinità, ma ricco di stupidi capricci e ritorsioni, segna i destini del nostro paese ma, ancora di più, del nostro futuro.
Moretti lancia, nel suo ultimo film, seguendo quel filo narrativo e semantico costruito lungo la sua carriera, un monito importante sulla necessità del continuare a porsi degli interrogativi, sul bisogno costante di non cessare di riflettere su argomenti che una lasciva ripetitività vuole spogliare del loro valore e dell’importanza del loro ripresentarsi. Perché il rischio è che, stufi, ormai, di mostrarsi indignati verso comportamenti e malcostumi che hanno assunto lo status di consuetudine, si soddisfi solo la voglia di pensare a storie esasperate, a “Cataratte” dove l’irrealtà degli eventi mostrati schiudono la porta ad una via di fuga più agevole, rassegnandosi ad una muta accettazione di quel “Berlusconi ci ha cambiato la testa” che risuona, adesso, non più come allarme ma come effettiva considerazione, supportata dalla verità del nostro partecipare e vivere la società italiana.

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