I figli del fiume giallo

Meno ambizioso, ma forse più riuscito del travagliato Mountains May Depart presentato in concorso a Cannes tre anni fa, Ash Is Purest White è l’ottavo film di finzione di uno dei due massimi autori cinesi intorno ai 50 anni, Jia Zhangke (l’altro è Wang Bing). Da quando ha preso in mano per la prima volta la macchina da presa, Zhangke ci ha tenuti informati, insieme a un folto gruppo di artisti contemporanei suoi connazionali, sulle trasformazioni della Cina del XXI secolo, che dal post-maoismo in poi ha radicalmente cambiato volto, assumendo connotati da grande paese capitalista aperto alla collaborazione con l’Occidente, pur continuando ad applicare i principi del comunismo marxista-leninista e maoista, con conseguenti e comprensibili effetti sull’identità di una popolazione già in precedenza disorientata da una capillare e chirurgica rivoluzione culturale che le ha cancellato ogni traccia di passato e di cultura storica. I film di Zhangke, regista fin dagli esordi sorprendentemente maturo ed elegante, hanno raccontato storie di uomini e donne il cui privato ha sempre coinciso con la cronaca politica e geofisica della Cina, diventandone una metafora nemmeno troppo velata, anzi facilmente leggibile. Vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2006 con il magnifico Still Life, Zhangke è negli anni diventato il cantore cinematografico dei drammatici contrasti della Cina contemporanea, intonati con un’intensità e un lirismo quasi viscontiani, almeno del Visconti di Bellissima e Rocco e i suoi fratelli: una comédie humaine da noi distante galassie culturali incolmabili, eppure così vicina nel comune, planetario destino della vita, dell’amore e della morte. Le citazioni dei titoli viscontiani non sono casuali: è come, infatti, se accanto a film decisamente ‘autoriali’ (come per Visconti furono La terra trema e Senso), il regista cinese abbia scelto la via di un cinema più ‘popolare’, mescolando, come in questo Ash Is Purest White, il genere del gangster movie con il mélo per arrivare a una più larga fascia di pubblico, senza mai perdere, naturalmente, la vena critica verso un sistema politico come quello cinese, più simile a un tritacarne che a un’organizzazione civile attenta alla dignità della società degli uomini.
Zhao Tao, compagna nella vita del regista, è la protagonista assoluta dal primo all’ultimo istante di un film che inizia come squarcio della vita malavitosa di una città della provincia cinese, Datong, nella regione dello Shanxi (dove Zhangke è nato). Utilizzando materiali girati nel 2001 e nel 2006, dunque in diversi formati e con diversa qualità di grana e definizione, per restituire il senso del tempo e dei cambiamenti che porta con sé, il regista cinese racconta il microcosmo di una gang mafiosa capeggiata da un balordo, la cui ‘pupa’ sembra lambire quel mondo di codici e regole che non ammettono sgarri di sorta, dimostrando invece di avere un ruolo assai più decisivo in qualità di timone del cuore del suo bel boss, interpretato dal tenebroso e flemmatico Liao Fan. E’ la Cina degli antichi principi fondati sull’onore e il rispetto, che sopravviverà ancora per poco, schiacciata dalla legalità di facciata di una macchina governativa che senza guardare in faccia a nessuno sovverte ruoli e responsabilità privilegiando la corruzione di chi, con i piedi in due staffe, se ne approfitta per assecondare un’economia in aberrante espansione. La ’pupa’ del boss troverà in quegli stessi codici d’onore che prima fingeva di ignorare l’unico senso di una vita altrimenti svincolata da qualunque appiglio o radice; la love story conoscerà fasi di turbolenza, di distacco, di chiusura, per rinascere con una formula tutta nuova finché, profondamente mutate le vite di entrambi, scocca il capodanno del 2018... Ma non spetta a queste righe resocontare i fatti e la cronaca illustrati in un film che a metà percorso coraggiosamente cambia registro, come spesso accade nella vita di ognuno di noi, in una metamorfosi che vede il genere noir modificarsi nella commedia di costume e assumere via via le sembianze di un melodramma arido e scarno, sullo sfondo della metamorfosi della Cina, dei suoi paesaggi, delle sue infrastrutture, delle sue città brulicanti di un’umanità sempre più ignara delle proprie origini, disorientata e demotivata, spinta a vivere la prosaica ripetitività del quotidiano dall’inerzia di una sopravvivenza ridotta a pura istintività, ai limiti del bestiale.
Sul teatro di tanta miseria cala la mano calda del cinema di Jia Zhangke, per accarezzare i suoi non-eroi nel tentativo di avvicinarli l’uno all’altro con movimenti di macchina cauti, morbidi, discreti, che ne seguono i gesti più ordinari, come accendersi una sigaretta, passarsi di mano in mano una valigetta piena di banconote, o un giornale da bruciare in un catino per scacciare gli spiriti infausti. E mentre la tonalità del film muta dai vivaci e metallici colori iniziali nel livore cupo di un evo contemporaneo sempre più asettico contenitore di solitudini e grigiore morale, l’obbiettivo di Zhangke rallenta, arretra, frena, fino a cercare aiuto in una zoomata dentro la schermata multipla di un circuito chiuso, come a selezionare casualmente uno dei tanti possibili set sui quali va in scena, in diretta e 24/7, la misera, squallida e solitaria tragedia della nostra solitudine.
Un grande film, di quelli che a distanza di giorni dalla visione ci risbocciano in cuore.
(Jiang Hu Er Nv/Ash Is Purest White); Regia: Jia Zhangke; sceneggiatura: Jia Zhangke; fotografia: Eric Gautier; montaggio: Matthieu Laclau; musica: Lim Giong; interpreti: Zhao Tao, Liao Fan; produzione: Xstream Pictures, Huanxi Media Group, MK Productions, Arte France; origine: Cina, 2018; durata: 141’
