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Aujourd’hui

Pubblicato il 11 febbraio 2012 da Matteo Galli


Aujourd'hui

Dopo i languori soft core di Versailles la prima “vera” giornata del concorso berlinese si è aperta con l’originale Aujourd’hui del regista franco-senegalese Alain Gomis, terzo lungometraggio di un regista che si era fatto notare a Locarno 11 anni fa con L’Afrance, ottenendo il Pardo d’Argento, ma che evidentemente fa una certa fatica a girare con continuità, se è vero che fra il film d’esordio e quello di oggi è riuscito a farne soltanto un altro (Andalucia nel 2007). Aujourd’hui è uno di quei film nei quali viene chiesto allo spettatore di condividere la premessa narrativa “fantastica” da cui parte chi lo ha scritto e lo ha girato, salvo poi dipanarsi come un normalissimo film nel quale, tutto sommato, vengono rispettati gli elementari codici del realismo. La premessa narrativa in questione è: un bel mattino Satché si sveglia e sa – ma se anche non sapesse, appena lascia la sua stanza da letto c’è uno stuolo di parenti a ricordarglielo – che quello sarà il suo ultimo giorno di vita. Non è malato terminale, non è il giorno dell’esecuzione di una condanna capitale, semplicemente lo sa, come in una pièce di Elias Canetti, Vite a scadenza, dove tutti giravano con una capsula recante la data di morte. Qualcuno (per tutto il film non ci viene detto chi: Dio? La Società? La famiglia?) ha deciso che sarà così e lui, senza neanche troppo ribellarsi, accetta il proprio fato. Dopodiché ha inizio l’ultima giornata di Satché costruita dal regista come il più classico Stationendrama, ciò che permette allo spettatore di apprendere alcuni dettagli dell’esistenza pregressa del protagonista, tutti rigorosamente privi di importanza relativamente alle ragioni che potrebbero spiegare il destino che lo attende: è emigrato negli USA per qualche anno ma poi è tornato a Dakar, ha avuto una prima fidanzata che ora fa la gallerista, lo zio, invece, di mestiere lava i morti e domani dovrà compiere il rito sulla salma del nipote, è sposato con due figli piccoli, ma verosimilmente è separato, visto che al mattino del suo ultimo giorno si sveglia in casa dei genitori e non accanto alla moglie, piuttosto incazzata con lui. La cerimonia dei commiati, la Passione di Satché ha anche una non disprezzabile valenza pubblica, la gente del quartiere si unisce a lui colmandolo di doni che lui accetta sorridente, lievemente imbarazzato e molto silenzioso. Persino le autorità cittadine si sono scomodate per organizzargli una festa di addio, non priva di tratti buñueliani, con i notabili, compunti e condolenti, che lo accolgono, anche se il condannato a morte arriva tardi; fra di essi salta agli occhi – unico personaggio di carnagione bianca fra i presenti – un cattedratico della Sorbona, docente di etnologia religiosa. E’ al più tardi qui che lo spettatore europeo si chiede se alla vicenda di Satché non sia sottesa una simbologia di stampo per l’appunto religioso o sciamanico – una domanda che un giornalista, in conferenza stampa, ha posto a Gomis, ricevendo come risposta un completo diniego, anche se poi per tutto il film non è possibile sottrarsi a continue associazioni cristologiche. Buona parte del film è affidata al volto e al corpo di Saul Williams che si candida immediatamente all’Orso d’Argento come migliore attore, pur parlando pochissimo (del resto è americano e verosimilmente sia il francese che il senegalese lo mastica poco), ma sostenendo con grandissima bravura una macchina da presa che gli sta perennemente incollata addosso. Williams è una figura notissima nel mondo del poetry slam e del rap e ha al suo attivo apprezzatissime collezioni di poesie e album musicali, nonché alcune sporadiche presenze nel mondo del cinema, la più famosa delle quali resta il ruolo di protagonista in Slam del 1998 (regia di Marc Levin) che valse al film il premio della giuria a Sundance e dove Williams di fatto metteva in scena se stesso. Vi è nel film un’altra protagonista: Dakar, raccontata senza eccessi, senza mai indulgere al bozzettismo da slum e senza cedere ad ansie documentariste, salvo forse in un caso, quello in cui viene intercettata una manifestazione di piazza a favore della democrazia, ciò che rende il film particolarmente attuale in questi giorni in cui il governo del Senegal è salito alla cronaca per aver impedito la candidatura di Youssou N’Dour a presidente della repubblica.


CAST & CREDITS

Regia: Alain Gomis; sceneggiatura: Alain Gomis, Djolof Mbengue, Marc Wels; fotografia: Cristel Fournier; montaggio: Fabrice Rouaud; interpreti: Saul Williams (Satché), Djolof Mbengue (Sele), Anisia Uzeyman (Rama), Mariko Arama (la madre); produzione: Granit Films, Parigi; Maïa Cinéma, Parigi, Cinekap, Dakar; origine: Francia-Senegal; durata: 86’.


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