Kuma
Bello certe volte non sapere le lingue perché la cosa può riservare sorprese. E’ il caso del film, ospitato nella sezione “Panorama” e intitolato Kuma, che, a differenza della gran parte dei film presentati al festival, non ha nemmeno un titolo ( o sottotitolo) in inglese. E neanche vedendo il film il mistero del titolo viene svelato. Solo leggendo un’intervista del regista (è del 1982, si chiama Umut Dag e questo è il suo primo film) si riesce a capire che cosa significa: “Kuma” vuol dire “seconda moglie”. Che dalla Turchia e soprattutto dal cinema della diaspora (o del métissage) turco-tedesco o come in questo caso turco-austriaco ci arrivino storie di matrimoni combinati non è una novità. Più originale è la costellazione messa in scena in questo film: Ayse si trasferisce dalla Turchia rurale per andare a Vienna, ufficialmente sposa a Hasan, in realtà ben altro la attende. Sarà per l’appunto la seconda moglie di Mustafa, il padre di Hasan, anche in considerazione del fatto che la madre Fatma è ormai da anni malata di cancro e la seconda moglie potrebbe presto ricevere un upgrade. Quanto a Hasan, a cui Ayse ogni tanto fa gli occhi dolci, si capisce fin da subito che a lui le donne non piacciono proprio. E quindi il matrimonio è stato anche una copertura sociale, una variante del Banchetto di nozze di Ang Lee. In realtà, oltreché per assolvere i doveri coniugali, Ayse è stata reclutata per fare da serva, visto che la madre è spesso in ospedale ed è debilitata da lunghe sedute di chemioterapia. Accolta malissimo dagli altri figli, Ayse sgobba in silenzio dispensando sorrisi. Poi anziché la madre muore il padre e la costellazione familiare deve essere ridisegnata. C’è chi vorrebbe rispedirla al paesello, ma, di nuovo, Ayse serve, e si mette a lavorare in un supermercato turco, qualcuno dovrà pur guadagnare qualche soldo. Fatma, la prima moglie, la prende sotto la propria ala protettiva, dormono insieme nel letto coniugale, Ayse è in fondo quella figlia obbediente che le altre/gli altri non sono mai riuscite/i ad essere, una viene regolarmente picchiata dal marito, l’altra non porta neanche il velo, per tacere del figlio gay. Fin quando Ayse non comincia a lasciar spazio alle ragioni del cuore e del corpo e tutto l’edificio rischia di crollare. Il film è molto ben scritto ed è tutto girato nella casa angusta, spesso anzi soltanto nella cucina, l’unica altra location è il supermercato, per il resto è quasi del tutto privo di riprese in esterni. Si tratta di una scelta formale perfettamente congruente con l’assunto che intende dimostrare la prigione dei ruoli ritagliati addosso alla protagonista, che quasi non può muoversi, non può sottrarsi al destino riservatole, né stanno diversamente le cose per gli altri, prigionieri pure loro di ruoli e tradizioni, che abitano in Austria ma avrebbero potuto continuare a vivere in Turchia, visto l’isolamento totale in cui vivono, se ogni tanto non inframezzassero qualche parola di tedesco la vicenda potrebbe comodamente svolgersi in Anatolia. Piace del film la totale assenza di qualsivoglia retorica sull’integrazione. E convince molto anche la parsimonia di mezzi narrativi, le allusioni, le ellissi, un certo laconismo mai forzato. Per essere un film di esordio, c’è di che essere ottimisti. Molto buono il cast, con alcuni visi molto noti del cinema turco-tedesco, come l’attore che interpreta il padre Mustafa, Vedat Erincin.
Regia: Umut Dag; sceneggiatura: Petra Ladinigg, Umut Dag; fotografia: Carsten Thiele; montaggio: Claudia Linzer; interpreti: Nihal Koldas (Fatma), Begüm Akkaya (Ayse), Vedat Erincin (Mustafa), Dilara Karabyir (Nurcan), Murathan Muslu (Hasan); produzione: Wega Filmproduktion, Vienna; origine: Austria; durata: 93’.