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Austerlitz

Pubblicato il 26 gennaio 2017 da Anton Giulio Onofri
VOTO:


Austerlitz

Austerlitz è il protagonista dell’ultimo romanzo di W.G. Sebald, scrittore tedesco che la morte prematura, avvenuta nel 2001 a causa di un incidente automobilistico, ha strappato alla lista dei più probabili candidati a un prossimo Nobel per la letteratura. Per trent’anni, lui e il Narratore si incontrano in giro per l’Europa e commentano edifici di pubblica funzionalità (stazioni ferroviarie, fortezze militari, ecc.) costruiti negli ultimi due secoli secondo criteri di estetica, utilità, gradevolezza di soggiorno, frequentati nel tempo da migliaia, milioni di persone, e che hanno via via conosciuto il declino, o altre destinazioni d’uso, continuando a custodire ricordi impossibili da trasmettere e da condividere con chi vi fa ritorno molti anni più tardi. Uno dei “luoghi” teatro degli incontri di Austerlitz e del Narratore (lo stesso Sebald, che inserisce nel testo scritto immagini d’epoca o fotografie scattate da lui stesso) è il campo di concentramento di Theresienstadt, dove lo stesso Austerlitz, ebreo scampato da bambino alla barbarie nazista, farà una scoperta sconvolgente che non è questa la sede per rivelare. Di tutto questo, ovvero di tutta questa “storia”, non c’è nulla nel magnifico documentario di Sergej Loznitsa girato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, a breve distanza da Berlino, eppure mai come stavolta un’opera cinematografica è riuscita a cogliere perfettamente il senso, lo spirito di un libro se non impossibile, quantomeno difficilissimo da ridurre “fedelmente” per lo schermo, e questa lunga introduzione è dedicata a tutti coloro che al termine della proiezione veneziana si sono chiesti la ragione del titolo.

Per 94 minuti girati con un teleobiettivo fisso puntato in più punti del sito, e con tagli ampi e comodi ogni sei o sette minuti, seguiamo, o forse “spiamo”, una normalissima giornata di visita al campo, e osserviamo le reazioni delle centinaia di turisti in calzoncini, maglietta, canottiera, cappellini e occhiali da sole (è una calda giornata estiva) che varcano i cancelli d’ingresso sui quali campeggia il celebre motto “Arbeit Macht Frei” (Il lavoro rende liberi), entrano ed escono dai reparti di detenzione e dai locali che ospitavano i forni crematori, sostano sul prato per un breve spuntino o per le spieghe delle guide in diverse lingue, e scattano fotografie e selfie con le fotocamere o con i cellulari. Gente “libera” di entrare e uscire, e passeggiare in ex-luoghi di massima detenzione, di indossare t-shirt variopinte e fregiate di scritte (“When Blackberry and Apple were only fruit World was a better place”, “Cool Story, Bro!”, “Jurassic Park”) dove i prigionieri vestivano tutti i tragicamente noti pigiami a righine, di soffermarsi pensosi a leggere i pannelli illustrativi o a gettare qua e là sguardi distratti e accaldati, di scattarsi foto ricordo da postare su facebook sullo sfondo delle fosse comuni, dei pali per le impiccagioni, degli sportelli aperti dei forni. Suona quasi divertente, a un certo punto, il perentorio richiamo di una delle guide che sollecita un gruppo di svaccati a interrompere il loro panino e a proseguire la visita: “Non siete venuti qui per mangiare!”… Va però detto, prima di insinuare in chi legge il sospetto di un’opera giudicante o moraleggiante, che l’occhio di Loznitsa si limita a osservare e a registrare quanto passa davanti al suo sguardo senza alcuna intenzione di evidenziare niente altro che non sia la realtà oggettiva che si verifica in quei momenti, così come in qualunque altro momento compreso nell’orario di visita in tutti i periodi dell’anno. Il tempo è passato, la Storia ha depositato, insieme ai ricordi, una polvere che non ha cancellato la memoria di eventi che rivivono solo ed esclusivamente come memoria, sostituiti oggi, e per fortuna, dalla diffusa libertà occidentale più o meno esente dalla mostruosa crudeltà che in quei luoghi sterminò milioni di persone. Loznitsa filma questa “nuova umanità” restituendocela in tutta la sua legittima superficialità – dopotutto si tratta di gente “in vacanza” – e in quei brevissimi, fugaci attimi in cui, come quando vorremmo scattare una fotografia e attendiamo che una signora col passeggino, o una ragazza che lecca un cono gelato, o due fidanzatini che si baciano escano di campo permettendoci di inquadrare finalmente uno spazio “vuoto” e dunque pieno soltanto di quello che abbiamo scelto di inquadrare, i mattoni, la ghisa, il filo spinato, tornano protagonisti assoluti dell’immagine, Loznitsa compie il miracolo di cui dicevo più sopra, ovvero centrare in pieno il senso delle pagine di Sebald e delle lunghe, dotte dissertazioni di Austerlitz sull’architettura pubblica nell’Europa che senza saperlo covava il seme dell’imminente follia: materiali edilizi assemblati per edificare luoghi destinati ad ospitare e produrre morte, sopravvissuti sia alle vittime che ai carnefici, compresi gli stessi operai che li hanno costruiti, ci ricordano, in quei brevi attimi in cui la macchina da presa li inquadra sgombri, silenziosi e solitari, di custodire le memorie di una tragedia di cui sono testimoni ignari per via della loro proprietà di materia inanimata. Senz’anima. E’ l’uomo (o il cinema), che li guarda, e nel subirne la potenza evocatrice, registra il tempo che, insieme alla vita, scorre utile, o inutile. Tanto non ha nessuna importanza.


CAST & CREDITS

(Titolo originale); Regia: Sergei Loznitsa; sceneggiatura: Sergej Loznitsa, dal romanzo omonimo di W.G. Sebald; fotografia: Sergei Loznitsa, Jesse Mazuch; montaggio: Danielius Kokanauskis; produzione: Imperativ Film; origine: Germania, 2016; durata: 94’


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