Australia
There’s no place like home.
(Judy Garland, The Wizard of Oz)
Centosessantacinque minuti di pura Australia. Sotto tutti i punti di vista. Questo è il nuovo film di Baz Luhrmann. Centosessantacinque minuti di storia, geografia e cultura australiana. Un’epica classica che strizza l’occhio a Via col vento e Casablanca. Il tutto condito da una storia d’amore che, come in Moulin Rouge (dove la storia era al servizio dello spettacolo visivo), altro non è che il pretesto che il regista australiano usa per raccontare la sua terra. E da buon aussie lo fa circondandosi di altri australiani, a dimostrazione che il cinema all’altro capo del mondo non se la passa poi così male (ma lo si era già capito da tempo). Proprio a tal proposito, se si ragiona un attimo, la presenza de Il Mago di Oz all’interno del film, come chiave del racconto, non sembra casuale: è vero che il tema del viaggio lo affrontano tanto Nicole Kidman che Nullah, il piccolo mezzo-sangue, a tappe alterne e inversamente l’uno all’altra, ma è anche vero che fare un paragone tra Judy Garland e la cinematografia australiana non sarebbe poi così sbagliato. Come Dorothy, anche gli australiani potevano "tornare in Kansas da soli, da subito", ma ci voleva un percorso di crescita che li portasse a rendersi conto delle loro effettive capacità e possibilità. Australia sugella questa evoluzione, dimostrando che la cinematografia australiana è pronta a mostrarci grandi cose.
Andando ad analizzare la componente visiva di quest’ultimo film dell’immaginifico Baz, torniamo a citare, come nelle prime righe di questo articolo (e come faremo probabilmente ancora da qui alla fine dello stesso) Moulin Rouge. Ricordate le avventure stilistiche del prode Baz tra piroette scatenate e bohemiens? I giochi di colori, i movimenti impazziti, quell’estetica da videoclip che tanto permeava il film? Beh, dimenticatela, o meglio, incanalatela verso nuove direzioni: Australia è un film storico, di grande respiro, fatto di panorami e spazi aperti, ancor prima che di persone e luoghi chiusi. E’ dunque ovvio che un tale film non segua quegli spunti visivi che Luhrmann ha esplorato nella sua Red Curtain Trilogy, ma è anche vero che, sotto sotto, come se fosse una specie di richiamo (come quando Nicole Kidman minimizza le sue capacità canore) qualcosa è rintracciabile, a partire dall’aria frizzantina del montaggio che si respira all’inizio del film (sicuramente una delle parti meglio riuscite), fino ad arrivare all’uso drammatico dei colori, allo studio attento e spesso maniacale degli stessi (come maniacale è anche l’attenzione riposta per quanto riguarda i costumi e i set). I movimenti di macchina poi, sono qualcosa di estremamente elaborato e grandioso: si ha quasi l’impressione che il buon Baz forzi la scena, la costringa in una cornice di "grandiosità" coatta ma, ragionandoci a posteriori, le scelte compiute dal regista australiano sono comunque tutte estremamente ponderate ed atte a sottolineare la forza di alcune sequenze e la maestosità di questa terra incredibile, che già da subito caratterizza il film con il suo nome nel titolo, che è l’Australia: l’impatto che ne risulta è, appunto, grandioso e, come tale, giustificato
Continuando la nostra disamina, non ci possiamo purtroppo distaccare ancora da Moulin Rouge: può semprare ripetitivo ma le similitudini tra i due film sono davvero molte, come la scelta di una voce off per raccontare la storia o come l’inizio giocoso ed estremamente frizzante, che ritroviamo in entrambi i casi. La stessa storia poi a volte sembra richiamare quella del precedente film di Luhrmann, in particolare nelle sequenze di poco antecedenti il finale, in cui sembra di rivedere Il Duca procedere a passo spedito, con una pistola in mano, verso il palco per uccidere Christian e Satine. Se poi vogliamo dirla tutta David Wenham assomiglia molto a Richard Roxburgh... ma questa è un’altra storia, come direbbe Lucarelli.
Sembrerebbe dunque, che il film sia estremamente autoreferenziale: lo crediamo prendendo in considerazione quanto detto poco sopra e, al contempo, andando a sottolineare alcune battute della Kidman, che sono molto più sue piuttosto che del personaggio che interpreta. Certo è, però, che questo film riprende ampiamente quelli che sono i dettami della poetica visivo-filmografica di Luhrmann, espressamente autoreferenziale sotto certi aspetti e impostata su binari ben precisi, rintracciabili in tutti i suoi film fin qui diretti (si pensi ad esempio al solo fatto che si tratta di quattro storie d’amore con al centro quattro coppie in lotta, che sfidano tutto e tutti). Il regista australiano segue quindi una ben precisa linea di lavoro, ravvisabile (e godibile) appieno anche in questo suo ultimo film, non di certo un capolavoro (quello lo era Moulin Rouge), ma comunque un film bellissimo, ricco di azione, amore, storia e cultura. Forse l’unica cosa che, ci sentiamo di dire, manca davvero al film, da inserire poco dopo il canonico The end, è la scritta "Please, visit Australia!". Ma qui si scherza, di nuovo, ovviamente. Del resto "there’s no place like Australia", e questo Dorothy... pardon, Baz lo sa bene.
(Australia); Regia: Baz Luhrmann; sceneggiatura: Baz Luhrmann, Stuart Beattie, Ronald Harwood, Richard Flanagan; fotografia: Mandy Walker; montaggio: Dody Dorn, Michael McCusker; musica: David Hirschfelder; interpreti: Nicole Kidman (Lady Sarah Ashley), Hugh Jackman (il Mandriano), Brandon Walters (Nullah), David Wenham (Neil Fletcher); produzione: Bazmark; distribuzione: 20th Century Fox; origine: Australia, 2009; durata: 165’