Babadook o l’horror come psicanalisi della mancata maternità.

Si fanno sempre più ricorrenti, nelle più recenti produzioni del cinema mondiale, i film in cui, sia per processi di dispiegamento psicologico che attraverso adattamenti di storie reali, si parla coraggiosamente di un taboo culturale: la paura della maternità, l’odio per i figli.
È questo il tema centrale del primo lungometraggio della regista australiana Jennifer Kent, che dimostra di saper dirigere un lavoro degno di essere classificato tra i più riusciti horror dei numerosi colleghi uomini.
Babadook sviscera una tematica scottante nella cultura occidentale: quella che vede la maternità come una sotra di santità e sistematicità biologica, come se essere madri fosse una sorta di panacea, attraverso la quale qualunque donna possa assurgere al ruolo di "mater familias", evocativa di fondamenti etico-morali di ascendenza mariana.
Il plot sembrerebbe far risaltare la problematica psichica del figlio di Amelia, Samuel, cresciuto senza padre, (già morto sei anni prima) e allevato da una madre single in grandi difficoltà economiche e distrutta dallo stress causato dalla sua iperattività.
Inoltre il bambino non dorme tenendo sveglia la donna, spaventa i compagni di classe, è molto agitato e indisciplinato, tanto che la madre arriva quasi ad odiarlo.
Le cose non migliorano quando nella loro vita si materializza un libro di favole diverso dagli altri, molto nero, cupo e spaventoso che viene prontamente messo via dopo la prima lettura ma continua a ripresentarsi fino a che la sua storia di un uomo nero che ti entra dentro fino a condizionarti non comincia lentamente ad avverarsi e intrappola i due nella loro stessa casa.
La Kent riesce a trasmettere una tensione intensa e costante durante tutto il film, grazie ad un sapiente uso del dolby e degli "outbursts" del famigerato Babadook; nella seconda parte del film invece c’è un ribaltamento e sarà Amelia a percepire la presenza di questo spaventoso "pupazzo" nero emerso chissà da quali meandri dell’anima...
Cosa può essere Babadook se non la materializzazione delle fobie, dell’inadeguatezza di diventare madre senza poter essere pronta a sacrificarsi per un esserino, che secondo la visione cattolica -o senza allontanarsi troppo per quella borghese- deve necessariamente anteporsi alla nostra persona, alle nostre vite?
Il nero funereo di Babadook volteggia nell’etere e negli incubi della protagonista del film, che da osservatrice del fenomeno ne diventa parte attiva: è così che Jennifer Kent riesce a esorcizzare uno stato emotivo di tante donne, che spesso non riescono ad amare o non amano affatto i propri figli.
Essere madri non può assumere la valenza di ipostatico assolutismo concettuale ma come ci insegna la moderna psicologia, può essere fonte di un forte disagio soprattutto per alcuni bambini, che diventano spesso le vittime sacrificali di donne profondamente inadeguate.
Sarà così anche per Amelia che nella parte conclusiva del film decide di convivere con la propria "black part" ospitando il mostro nel sottoscala e nutrendolo con "vermi" non a caso evocativi di quella oscurità dell’anima femminile che la società ha trasformato in un desueto e incomprensibile taboo.

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