Baksy

Mani che tengono per le zampe un agnello squarciato, il cui sangue rosso e intenso viene lasciato scivolare lungo la schiena e il corpo nudi di una donna di mezza età. Le stesse mani, in seguito, impastano argilla con la quale ne ricoprono un altro, di corpo : quello di una sedicenne che, secondo la madre, deve essere guarita da un grave problema, ossia l’andare con tutti.
Le mani sono quelle di Aidai, anziana sciamana kazaka che può guarire le persone, ritrovare la loro anima e risolvere problemi più materiali. La donna vive da anni su una terra dalla quale trae la sua forza guaritrice, terra che appartiene a un ricco uomo d’affari molto affezionato a lei : Batyr. Ma la malavita locale, collusa con le autorità, vuole costruire un distributore di benzina e un motel proprio sul terreno su cui è costruita la sua casa. Sarà proprio il suo carattere scorbutico a fornire l’occasione alla polizia per arrestarla, dopo che Aidai ha preso a bastonate un manovale che aveva scoperto giacere con quella sedicenne di cui prima. Per non lasciarsi prendere, la donna compirà un rito attraverso il quale conoscerà una morte che noi poi scopriremo essere solo apparente. Un anno dopo, la notte dell’inaugurazione della stazione di servizio, questa brucerà completamente. La mafia accuserà Batyr, imponendogli di pagare i danni. L’uomo si professerà innocente, affermando invece che loro non vogliono capire che in realtà è stato qualcos’altro a causare l’incendio. I malavitosi ovviamente non gli crederanno e rapiranno il suo bambino.
È una strana opera, questo Baksy, nella sua commistione di messa in scena di arcaicità e di modernità, di sacralità e di senso del profano : si tratta di due direzioni, però, che confliggono l’una contro l’altra, senza riuscire ad accompagnarsi lungo un cammino che possa dare una parvenza di coerenza artistica all’intera operazione, tanto che il film non potrà essere considerato poco più che un esperimento, di sicuro poco riuscito.
La regista Guka Omarova ha cominciato la sua carriera col documentario e ha collaborato con Sergei Bodrov per Mongol; Bodrov ha contraccambiato partecipando alla stesura del soggetto e della sceneggiatura di Baksy. In quest’ultimo film l’occhio osserva lande deserte racchiuse all’interno di catene montuose dai picchi perennemente innevati, immersi nel silenzio di una natura che appare a noi molto lontana, come se provenisse da un altro mondo. E a un altro mondo sembra appartenere il modello di società messo in piedi da Aidai, ambiente questo osservato con piglio quasi antropologico. Ma nella seconda parte si innesta una trama da gangster-movie che è parsa assai estranea a quanto l’inizio aveva lasciato intravedere : la violenza fisica che segue a quella morale, conclude il percorso in modo anche inaspettato, ma senza riuscire a regalare né emozioni, né pensieri che vadano al di là di una semplice constatazione di quanto visto. E anche il rito che veramente chiude il film, non sa più restituire quella vastità e quel mistero che dovrebbero essergli propri. Perché Baksy paga lo scotto di rimanere un film irrisolto, perso tra le due condizioni opposte, qui rese irriducibili ed eternamente in conflitto.
(id.); Regia: Guka Omarova; sceneggiatura: Guka Omarova e Sergei Bodrov; fotografia: Rafik Galeev; montaggio: Darya Danilova; musica: SIG; interpreti: Nesipkul Omarbekova (Aidai), Farkhat Amankulov (Batyr), Tolepbergen Baisakalov (Tokha), Almat Ayanov (Asan), Asel Abutova (Gaulkhar); produzione: CTB Film Company, Studio Kazakhfilm, Kinofabrika e Les Petites Lumieres; origine: Russia, Francia, Kazakistan e Germania 2008; durata: 87’.
