BALZAC E LA PICCOLA SARTA CINESE

Si sa che spesso i film da Festival o “impegnati” trovano collocazione nella programmazione estiva, quando ormai al cinema ci va solo chi è realmente motivato (per una sorta di selezione naturale) a conoscere cinematografie sommerse. Questo film, in competizione a Cannes 2002, viene distribuito solo oggi, nonostante possegga non poche qualità: la prima di essere un film che scorre leggero come un ruscello di montagna senza rinunciare a picchi lirici, la seconda è che sembra un prodotto che ha saputo rendere commerciabile l’immagine degli anni della dittatura maoista in Occidente. Il testo di Dai Sijie, bestseller in Francia nel 2001, pubblicato in Italia da Adelphi, è stato trasposto in pellicola dallo stesso autore, che si era provato già altre volte, con scarso successo, dietro la macchina da presa. Due giovanissimi cinesi, Lu e Ma, figli di reazionari borghesi, vengono mandati negli anni Sessanta a rieducarsi in una comune chiamata “oltre l’occhio del cielo”, in cima ad un altopiano irraggiungibile. Nella comunità impregnata di ideologia maoista conoscono la figlia del sarto del villaggio e se ne innamorano entrambi conquistandola con le parole di Balzac e Flaubert, Dostojevski e Dumas, autori proibiti dal regime. In un mondo autarchico, dominato dai grandi fratelli della rivoluzione proletaria, dove al cinema si proiettano solo film nordcoreani, dove Mozart e Beethoven sono ammessi solo come cantori del presidente Mao o del compagno Lenin, la musica e la letteratura gettano i semi della libertà. La storia di un’amicizia a tre, un topos della narrazione cinematografica da Jules e Jim a The Dreamers, si impreziosisce di accenni letterari, il trittico d’amore lui-lei-lui (il rapporto perfetto secondo Marguerite Duras) crea un’affinità elettiva che diventa ancora più elettiva se emerge dal contesto fortemente repressivo della rivoluzione culturale cinese. Il film sboccia rigoglioso dalle prime alle ultime sequenze, dall’adolescenza fantastica alla maturità dei due uomini che hanno mitizzato quel passato come un paradiso perduto. Nel finale, ricondotti al presente, capiamo che il film è stato il lungo flashback di M, che è diventato un violinista affermato in Francia e che ritorna dopo tanto tempo sulle tracce della piccola sarta, sperando di ritrovarla ancora al villaggio, prima che venga spazzato via dall’onda anomala del progresso. La pecca del film sta tutta nelle ultime sequenze, che risultano incollate senza molta inventiva al racconto, come se il regista fosse stato colto dall’ansia di far trasparire il rimpianto con le immagini della metropoli cinese e dei sogni infranti, raccontando l’universale periodo di passaggio all’età matura di tre adolescenti e di tutto un paese che ha perso la sua (pur cupa) innocenza dal punto di vista esterno di chi ha acquisito un occhio occidentale per vedere il mondo.
[luglio 2004]
Regia: Dai Sijie; sceneggiatura: Nadine Perront, Dai Sijie; interpreti: Zhou Xun, Chen Kun, Liu Ye, Wang Shuangbao; fotografia: Jean-Marie Dreujou; montaggio: Luc Barnier; origine: Francia/Cina; distribuzione: Ager 3; durata: 110 min.
