Berlinale 2013: Un bilancio

Rispetto all’anno passato si può essere soddisfatti del concorso. Molti film dignitosi, alcuni notevoli. Forse solo The Necessary Death of Charlie Countryman nel tabellone principale non doveva esserci. Gli altri tre film americani (Van Sant, Soderbergh e Gordon Green) si sono rivelati alla fine meglio del previsto. Poi si potrebbe discutere sulle wild cards permanenti per i concorsi dei principali festival concesse ad autori, sopravvalutati, quali Hong Sangsoo e Ulrich Seidl. Dello stato di pessima salute di cui gode il cinema tedesco, testimoniato dal film di Thomas Arslan, si è già detto. E’ stata una Berlinale decisamente al femminile, quella del 2013, con una spiccata prevalenza per le donne over fifty o addirittura over sixty, al punto che per l’assegnazione dell’Orso d’Argento alla migliore interprete la giuria avrà davvero l’imbarazzo della scelta: Luminiţa Gheorghiu nel film rumeno (Child’s Pose) è, secondo me, al primo posto, ma poi c’è Paulina Garcia (Gloria), c’è Juliette Binoche (Camille Claudel 1915), c’è Pauline Etienne, la giovane monaca del film tratto da Diderot, e ci sarebbe ovviamente Catherine Deneuve, brava in Elle s’en va, come lo è stata di rado. Già più difficile individuare papabili per l’Orso d’Argento maschile: per me resta in pole position Andrzej Chyra, il prete di In name of..., forse col vento in poppa delle dimissioni di Ratzinger, in subordine Kamboziya Partovi, protagonista e co-autore di Closed Curtain oppure i due protagonisti di Prince Avalanche o Alexander Yatsenko, il protagonista del film di Boris Khlebnikov. Sulla fotografia se la giocano il fotografo kazako, se verrà privilegiato il gusto per una inquadratura più rigorosa e formalmente impeccabile, Pavel Kostomarov invece se nella giuria avranno il sopravvento i cultori della steady cam, anche se Kostomarov è già stato premiato due anni fa. Per l’Orso d’oro ci sono quattro opzioni: un classico film con sceneggiatura solida, leggermente feel good come Gloria di Sebastian Lelio (l’applausometro delle proiezioni stampa direbbe questo), l’Orso come atto politico-estetico con il premio a Closed Curtain, il non del tutto convincente film di Panahi, l’Orso a un film estremo e leggermente punitivo come quello di Bruno Dumont. Oppure l’Orso al film kazako, per premiare un giovane con un tema a forte impatto politico. Fra gli outsider il film di Danis Tanovic e – ma rispetto alla critica internazionale la mia è una posizione deviante – il film polacco.
Fra le tendenze forti della Berlinale di quest’anno si segnalano da un lato l’interesse marcato per la provincia, bosniaca, polacca, russa, kazaka, americana (Prince Avalanche e Promised Land), francese (Elle s’en va, Vic+Flo). Si sono viste, invece, pochissime città: a parte la New York di Side Effects, Santiago, Bucarest (due volte, una anche nel brutto film di Fredrik Bond), una Seul quasi marginale, appena appena Johannesburg, pensate, tre film francesi e niente Parigi; dall’altro, come detto, l’attenzione alle biografie femminili soprattutto quelle di donne non più giovanissime e la crisi della famiglia tradizionale. Fra i temi ad alto gradiente politico, tradizionalmente presenti alla Berlinale, in ordine sparso: chiesa e omosessualità, bullismo e tortura, mortificazione della libertà di espressione, malasanità, discriminazione sociale, speculazione sul territorio.
