X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Berlino 2011 - Il trionfo iraniano in un’edizione dalle idee confuse

Pubblicato il 21 febbraio 2011 da Antonio Valerio Spera


Berlino 2011 - Il trionfo iraniano in un'edizione dalle idee confuse

Tanti sono stati i protagonisti della 61° Berlinale, Isabella Rossellini, Kevin Spacey, Helena Bonham Carter, Colin Firth, Wim Wenders, Werner Herzog. Ma uno solo ha spiccato su tutti, nel bene e nel male. Parliamo dell’Iran, paese del giurato Jafar Panahi, impossibilitato a raggiungere la Rossellini e colleghi alla rassegna tedesca a causa della sua ormai nota, ignobile ed ingiusta, carcerazione da parte del governo di Ahmadinejad, ma anche paese d’origine del film trionfatore di questa edizione, quel Nader and Simin, a separation di Asghar Farhadi che si è portato a casa l’Orso d’Oro e i due Orsi d’argento per le interpretazioni all’intero cast maschile e femminile. Sarebbe facile pensare ad una “strana coincidenza” tra i due eventi, alla luce anche di altri riconoscimenti festivalieri recenti che sembravano dettati più da motivi extracinematografici che da obiettivi o personali gusti artistici. E forse, a spingere la scelta della giuria, un pizzico di sensibilità socio-politica-umana c’è stata. Ma ciò non toglie nulla al merito del vincitore, nettamente il film più bello passato in concorso, il più emozionante, il più complesso, il più apprezzato da pubblico e critica. Per cui nulla da dire sul verdetto finale e neanche sulla decisione di accentrare i premi più importanti sullo stesso film. L’unico che è sembrato molto contrariato dalle scelte della Giuria è solo Bela Tarr, che dopo aver annunciato il suo ritiro anticipato dall’arte cinematografica si aspettava di portarsi a casa l’Orso d’oro anziché un “inutile” e "poco prestigioso" Premio della Giuria. Il suo silenzio e la sua espressione del viso al momento della consegna della statuetta sono il ritratto perfetto di un grande artista cosciente del suo talento visionario, della sua “intellettualità” raffinata e complessa, spocchioso quanto basta dall’alto del suo genio tanto affascinante quanto creatore di racconti in immagini poco commerciali. Insomma, la sua reazione, anche se al momento è apparsa un po’ esagerata e fuori luogo, alla fine è stata la ciliegina sulla torta un po’ scorretta e polemica che serve sempre a un festival per ritenersi tale. Per cui grazie a Bela Tarr per il suo A Turin Horse (difficile ed estremamente complesso come gli si confà) e per la sua sincerità e trasparenza.
Ma se il regista ungherese è apparso deluso per il mancato Orso, delusi siamo rimasti anche noi dal premio alla regia ad Ulrich Kohler per Sleeping Sickness, opera esteticamente buona ma non di certo entusiasmante. Ma si sa, alla fine alla Berlinale il cinema tedesco non esce mai a bocca asciutta, e Kohler in confronto agli altri connazionali in gara rappresentava sicuramente la scelta migliore, insieme a If not us, who, che comunque si è portato a casa l’Alfred Bauer Award. Ma nel palmarès finale c’è anche un po’ d’Italia, nonostante gli unici due film presenti alla Berlinale fossero in sezioni collaterali (Gianni e le donne e Qualunquemente). Il riconoscimento per la miglior sceneggiatura è infatti andato all’albanese The Forgiveness of Blood, coprodotto da Domenico Procacci, che si è inserito nella produzione a progetto già iniziato e che distribuirà il film in Italia.
Inutile però restringere i nostri commenti sulla Berlinale ai soli vincitori finali. I discorsi da fare sono tanti e non del tutto confortanti. Se è opportuno sottolineare lo stragrande successo mediatico (almeno in Germania) e soprattutto di pubblico (sale sempre strapiene, lunghissime file per le proiezioni, folle di spettatori anche per la retrospettiva su Bergman), che ha notevolmente aumentato la portata della rassegna come evento culturale, allo stesso tempo non possiamo esimerci da critiche nei confronti del lavoro di Dieter Kosslick, un direttore che negli ultimi anni aveva trovato un’anima precisa per il festival, puntando su cinema americano commerciale e grandi autori accostati a registi esordienti e a cinematografie minori e “lontane”. Una scelta che non garantiva necessariamente qualità, perché costruiva la selezione anche su coraggio e scommesse, ma che offriva uno sguardo nuovo sulla Settima Arte contemporanea, uno sguardo totale, a 360 gradi, che se non convinceva, almeno lasciava la sensazione di studio e sperimentalismo, di cinefilia pura, di diversità rispetto alle altre rassegne internazionali come Cannes e Venezia, attente soprattutto ad avere nomi risonanti e tappeti rossi pieni di star. Quest’anima purtroppo si è vista poco nell’ultima edizione. Sembra che Kosslick e i suoi collaboratori abbiano ristretto il loro campo d’azione e abbiano costruito quasi casualmente la competizione ufficiale, senza nessuna attenzione particolare, senza nessun filo conduttore. Due soli i cineasti “importanti” (Ocelot e Bela Tarr), pochi film interessanti (se non nessuno, a parte i premiati), poche le opere extraeuropee (che invece negli ultimi anni avevano rappresentato il punto di forza del Festival), poca focalizzazione sul sociale e soprattutto poco coraggio nelle scelte. Per cui ecco il film americano molto verboso e corale con tante star (Margin Call), la commediola inglese di una giovane regista/attrice che aveva ricevuto ottimi consensi per il suo primo film (Miranda July, con The Future), il solito noioso adattamento moderno di Shakespeare (Coriolanus di Ralph Fiennes), il film israeliano che nasconde un messaggio pseudopolitico dietro al racconto del rapporto tra due donne (Lipstikka, comunque non male), il film coreano di atmosfere (Come Rain Come Shine), il film messicano che non può mai mancare (Un mundo misterioso) e poi tanto cinema tedesco. Troppo cinema tedesco. Perché se a prima vista i film tedeschi tra concorso e fuori concorso erano solo quattro, in realtà aggiungendoci le coproduzioni arriviamo a ben 11 titoli, senza aggiungere il film di Werner Herzog, che invece ha finanziamenti americani e britannici.
In questo insieme confuso di pellicole è difficile, se non impossibile, trovare una linea guida alla base, un criterio concreto di selezione. Di qualità ce n’era poca, di novità quasi niente. Esclusi i due vincitori principali (Tarr e Nader and Simin), rimangono forti solo le emozioni che ci hanno regalato Wim Wenders e Werner Herzog con i rispettivi film in 3D Pina e Cave of Forgotten Dreams, entrambi capaci di sfruttare in maniera poetica e originale la nuova tecnica stereoscopica e di firmare opere a modo loro ipnotizzanti.
Gli altri film convincenti del festival si trovavano nelle sezioni collaterali. Forum, con la sua anima sperimentale, e Panorama, con la sua attenzione per tutta la giovane cinematografia mondiale, hanno presentato in selezione opere molto interessanti come Here, Medianeras, Amador, Life in a Day, Submarine, Viva Riva!, The Guard, pellicole che avrebbero meritato una vetrina più importante ed una visibilità maggiore. In più ci è apparsa incomprensibile la decisione di lasciare in Panorama il messicano-spagnolo Tambien la lluvia che senza dubbio è stata la più bella e felice scoperta della Berlinale 2011. Una sessantunesima edizione nel complesso fiacca e senza idee, apparsa veramente stanca dai tanti sforzi del decennale dell’anno passato. Fortunatamente però il pubblico tedesco (e non solo) continua ad apprezzare il cinema (bello o brutto che sia), a riempire le sale, a perdere ore in fila per comprare un biglietto, lasciando il più delle volte gli spalti del red carpet semideserti. La forza Berlinale sta proprio nella passione del suo pubblico. E speriamo che l’anno prossimo venga ripagato con la stessa moneta.


Enregistrer au format PDF