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Berlino 2011 - Yelling to the Sky - Concorso

Pubblicato il 13 febbraio 2011 da Antonio Valerio Spera


Berlino 2011 - Yelling to the Sky - Concorso

Secondo film statunitense del concorso di Berlino 2011 è l’opera prima di Victoria Mahoney Yelling to the Sky, pellicola anonima e già vista che per tematiche e ambientazione va a inserirsi nella scia della nuova cinematografia afroamericana. Discorso razziale in primo piano, bullismo giovanile, situazione familiare complicata, genitori assenti e violenti, difficoltà scolastiche: il riferimento più vicino è ovviamente Precious di Lee Daniels, che tanto successo ha riscosso in tutto il mondo negli ultimi due anni, lanciando nello star system (off) hollywoodiano il volto e la fisicità della dolce e fragile Gabourey Sidibe. Attrice, quest’ultima, che ritroviamo anche nella pellicola scritta e diretta dalla Mahoney. Ma se nel film di Daniels la “soffice” attrice era la vittima del tragico contesto sociale, qui invece non è più lei a “subire” ma è relegata a figura di contorno e a parti totalmente invertite, nel ruolo della baby boss della scuola. E se a lì ad accompagnarla sullo schermo c’era il cantante Lenny Kravitz, qui nel ruolo della giovane protagonista c’è proprio la figlia del cantante, Zoë, al suo primo vero ruolo importante.
Ma cast a parte (da segnalare anche un ottimo Tim Blake Nelson, padre alcolista e violento), il film della Mahoney stenta a decollare e soprattutto a costruirsi un’anima. La regia è piatta e non offre nessuno spunto. L’obiettivo ricercato è il realismo, ma le scelte stilistiche della Mahoney risultano inefficaci. La macchina a mano si muove confusamente e con poche idee attorno ai personaggi; gli sta sempre attaccata, li segue, ma non li “scava” mai, non riesce in nessun momento ad immergere lo spettatore nei loro sentimenti. L’evidente tentativo di empatia tra regista e personaggio principale lascia trapelare un certo autobiografismo nella storia, ma non tutto è spiegato approfonditamente e alcune svolte psicologiche dei personaggi appaiono alquanto incomprensibili. In Yelling to the Sky si avverte quindi l’assenza di una vera introspezione, quella profondità emotiva e psicologica che invece salvavano un film come Precious da una messa in scena poco illuminante. Inoltre, la redenzione finale che coinvolge tutte le figure del racconto infonde il film di un buonismo e di una speranza che sarebbe stato meglio lasciare da parte.
L’opera si lascia guardare, scorre agevolmente, ma non graffia e non tocca neanche le corde dell’emozione. Il contesto sociale della periferia americana (quella “black”, che tanto ci piaceva nei film di Spike Lee) è descritta attraverso banali stereotipi, mediante i soliti inserti di droga, risse, alcolismo. Non c’è niente di nuovo. Tanta carne al fuoco e poca incisività. I difetti maggiori sono riscontrabili nella sceneggiatura (troppo semplicistiche alcune svolte narrative, personaggi persi per strada, buchi evidenti), un testo in cui gli ingredienti sono molteplici, ma il cui mix finale non ha un sapore ben preciso e sa solo di dejà vu superficiale e scontato. La vetrina del concorso della Berlinale sembra a dir poco immeritata per un film così privo di idee.


CAST & CREDITS

(Yelling to the Sky) Regia e sceneggiatura: Victoria Mahoney; fotografia: Reed Morano; montaggio: Geeta Gandbhir, William Henry; musica: David Wittman; interpreti: Zoë Kravitz, Jason Clarke, Antonique Smith, Yolanda Ross; produzione: YTTS, LLC; origine: USA; durata: 99’.


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