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Beuys

Pubblicato il 15 febbraio 2017 da Matteo Galli

VOTO:

Beuys

A tre giorni dalla conclusione del festival possiamo fin da adesso dire che la Berlinale di quest’anno è davvero di notevole livello. Lo dimostra anche il secondo film tedesco in concorso, il documentario di Andres Veiel dedicato a Joseph Beuys (1921-1986), e semplicemente intitolato Beuys. Se non può essere considerato un plausibile candidato all’Orso d’Oro, lo si deve solo al fatto che appare difficile che a Berlino si decida di premiare un documentario per due anni di seguito, dopo che nel 2016 ha vinto Fuocoammare.
Che Veiel sia un eccellente documentarista lo sappiamo da almeno quindici anni, dai tempi di quello che resta uno dei migliori documentari sul terrorismo tedesco, Black Box BRD del 2001, il primo a raccontare in parallelo, novello Plutarco, la vita di un terrorista della RAF e di una vittima del terrorismo. Poi, nel 2011, Veiel aveva presentato a Berlino il suo primo film di finzione, Wer, wenn nicht wir (Chi, se non noi) e ci eravamo rammaricati espressamente che, a cinquant’anni, avesse scelto una strada che più di tanto non gli si confaceva. Adesso Veiel è adesso fortunatamente tornato all’origine e ha fornito la prova forse più matura del suo documentarismo impegnato.
Girare un documentario su Joseph Beuys – crediamo – è impresa ciclopica, perché significa trovarsi di fronte a una messe di materiali semplicemente sterminata, materiali fotografici, materiali video, oltre a un numero potenzialmente infinito di testimoni che hanno conosciuto Beuys, che hanno lavorato con lui, che hanno studiato con lui; del resto basta vedere ogni volta che Beuys si esibisce, inaugura una mostra, allestisce, installa quante macchine fotografiche, macchine da presa e registratori sono puntati su di lui per capire quanto materiale esista. Il lavoro compiuto da Veiel e dai suoi collaboratori, fra i quali vanno innanzitutto menzionati i due montatori Stephan Krumbiegel e Olaf Voigtländer, nonché la responsabile delle ricerche di archivio Monika Preischl, è stato sensazionale. Sensazionale perché prettamente visivo e pur partendo in larga parte da fotografie, ovviamente analogiche, soprattutto nella forma ormai desueta dei cosiddetti provini a contatto, ha saputo imporre alla narrazione un dinamismo tutto speciale. La fotografia già di per sé animata dai movimenti della macchina da presa si anima ulteriormente interagendo col materiale filmico pre-esistente, materiale amatoriale, materiale televisivo, materiale ufficiale, mentre invece – e non possiamo che condividere la scelta – è stato deciso di ridurre al minimo, soprattutto in sede di montaggio, lo spazio dedicato ai talking heads, alle interviste (in conferenza stampa Veiel ha raccontato che gli intervistati in origine erano più di venti, nella versione finale del film invece ne sono rimasti cinque).
Del tutto condivisibile è anche la scelta di non strutturare la narrazione in modo banalmente cronologico, ma per affondi tematici che ritornano con una struttura musicale-ossessiva, una specie di rondò, esemplato dal martellante squillo di un telefono e dalla voce dell’artista che alza la cornetta dicendo semplicemente “Beuys”, documentando una vigilanza, una presenza, una disponibilità inesausta. Quali sono gli affondi tematici che più interessano a Veiel e anche al produttore Thomas Kufus, che ha conosciuto di persona Beuys e che ha sostenuto in ogni possibile modo la realizzazione del film, un progetto protrattosi per anni, all’interno del quale la semplice soluzione delle questioni giuridiche relative ai diritti d’autore su tutto il materiale iconografico ha richiesto quasi un anno? Partiamo, forse, da che cosa non interessa. A Veiel non interessa tornare a riproporre le sordide polemiche spicciole e datate che fanno tanto BRD anni ’60-anni ’80, le polemiche con i politici di destra (culminanti nella famosa definizione della notissima installazione Mostra la tua ferita come “la più costosa immondizia di tutti i tempi” da parte di un politico bavarese), pur essendo il capitolo Beuys e la politica è bello corposo, anzi si potrebbe quasi dire essendo l’asse portante dell’intero film, anche e soprattutto nel suo momento visionario: Beuys come fautore di una democrazia di base (basti pensare alla nascita all’interno di di Documenta 5 della “Organizzazione della democrazia diretta su base referendaria”), Beuys anticipatore di tutte le crisi economiche derivate dalla dematerializzazione dei flussi finanziari, Beuys come precoce sostenitore di quello che oggi si chiama reddito di cittadinanza, l’inesausto impegno di Beuys in campo ecologico culminante nel meraviglioso progetto delle 7000 querce piantate prima a Kassel, in occasione di Documenta 7 nel 1982, e poi portato avanti un po’ dappertutto negli anni a venire. Sempre riguardo al Beuys politico e riguardo al Beuys ecologico si deve a Veiel il recupero di un capitolo dimenticato (o rimosso) dell’itinerario dell’artista: il sostegno immediato alla nascita dei Verdi sul finire degli anni ’70, ciò che tuttavia non ha impedito una sua marginalizzazione al momento in cui si trattò di decidere le candidature al parlamento federale, anche per i Verdi, già per i Verdi Beuys era un personaggio troppo ingombrante e scarsamente irregimentabile. Molto spazio viene dato alla presenza mediatica dell’artista, alle sue performances, alle sue dichiarazioni sempre a metà strada fra il lucido statement illuminista, volto a sottolineare il valore emancipatorio dell’arte nel suo insieme, e la boutade. Con discrezione è presente anche un capitolo, in parte controverso, della sua giovinezza, quello dell’arruolamento nella Luftwaffe, l’abbattimento, la ferita alla testa, che indusse Beuys a portare sempre il cappello, poi divenuto uno dei marchi di riconoscimento del suo look. Molto spazio viene lasciato infine al Beuys appassionato insegnante e alle sue battaglie per una democratizzazione dell’educazione, ciò che, di nuovo, lo pose in conflitto con le istituzioni politiche dell’epoca. Traspare, fra le righe, una nostalgia, mai patetica, per tempi diversi e irrimediabilmente trascorsi, segnati dall’impegno, dalla disponibilità di un artista, di un intellettuale a mettersi in gioco con tutto sé stesso, il proprio corpo, la propria ferita, la propria volontà di “sich verschleißen” di dissiparsi, splendida dichiarazione fra le più alte di questo ottimo film.


CAST & CREDITS

(Beuys); Regia: Andres Veiel; sceneggiatura: Andres Veiel; fotografia: Jörg Jeshel; montaggio: Stephan Krumbiegel, Olaf Voigtländer; ricerche d’archivio: Monika Preischl; musica: Ulrich Reuter, Damian Scholl; produzione: zero one film, Berlin, Terz Filmproduktion, Colonia, SWR, WDR, Arte; origine: Germania 2017; durata: 107’.


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