Big Eyes
L’inganno rappresenta molte volte un piacevole alleato per un narratore, altre volte ne sottolinea di fronte all’iraconda ribellione del pubblico i limiti artistici e tecnici. Altre volte ancora, come nel caso di Big Eyes di Tim Burton, l’inganno diventa l’elemento cardine di un’operazione trasmigratoria che dallo script parte per arrivare sino all’impronta lasciata dall’artista. Se sino ad oggi siamo stati abituati a vedere nei film di Tim Burton l’immaginario cupo e fantasmagorico del suo animo controverso, con Big Eyes siamo improvvisamente catapultati in un mondo patinato che risiede al di qua della visione prettamente burtoniana e fonda le proprie radici, incredibile ma vero, nella realtà. Realtà che diventa inganno per lo spettatore di Burton (il quale non riconosce la mano del suo regista), inganno che Burton crea volutamente per celebrare la storia reale da lui raccontata e celarsi dietro di essa con un duplice scopo. Quello di tenere, una volta tanto, per sé “il lato oscuro” della scena muovendo da dietro i fili di un teatrino kitsch e quello di giocare a nascondino con lo spettatore fornendogli di tanto in tanto dei sussulti di puro cinema burtoniano. Non è quindi solo una questione di luce che si sostituisce al buio, di colore che cancella i chiaroscuri, di immagine conciliante e non più tenebrosa. La realtà/inganno è nella storia “vera” di Walter Keane, dei suoi quadri con soggetti dagli occhi grandi e della moglie Margaret, vissuta per anni all’ombra del marito artista e impostore (considerato tra i pittori più importanti e di successo del mondo) prima di rivelarsi come la vera autrice di quei quadri così prestigiosi. La realtà/inganno è la narrazione dell’inganno più clamoroso della storia degli inganni (da apparire quasi finto). E’ una mise en scene effervescente ma rigorosa che lascia poco spazio, se non in qualche scampolo di film, alla distorsione espressionista per privilegiare una linearità di racconto (molto ben calibrata dai due esperti scrittori di biopics Scott Alexander e Larry Karaszewski) e una verosimiglianza visiva poco frequentate dal regista di Burbank. Con Big Eyes siamo nel terreno della convenzionalità ortodossa e pacchiana, spinta all’estrema conseguenza della paradossalità con l’intento di colpire alla testa, e non al cuore come molti crederebbero, lo spettatore burtoniano. Perché se tradimento c’è nell’opera di Burton e nella sua scelta registica non è di certo un tradimento affettivo ma un tradimento ragionato, atto, come già accennato, a rimuovere i clichè del suo cinema precedente e rinvigorire la propria ispirazione artistica con una scossa ludica tipica del più sentimentale dei registi manieristi. Come abituarci quindi a questo nuovo mondo, come attenuare lo spiazzamento che esso può provocare sul frastornato seguace di Burton? Semplicemente accontentando il regista e accettando la sfida da egli stesso lanciata sul terreno neutro della convenzionalità. Accettare la paesaggistica rappresentazione trompe l’oeil del regista/impostore (così come il mondo ha accettato le balle del pittore impostore Walter Keane) salvo scoprire in essa o sotto di essa i numerosi squarci rilasciati dal Burton visionario a parziale tutela di una poetica momentaneamente occultata ma sempre pressante. Prova ne sono le estremizzazioni ai limiti del surreale di alcune sequenze, la coloritura che in alcuni frammenti esce dalla tavolozza per ottenere delle distorsioni inverosimili (una San Francisco color pastello che ricorda i villaggi di Big Fish e la periferia middle class di Edward mani di forbice), le visioni della protagonista Amy Adams (la quale comincia ad un certo punto a subire la pressione di un segreto che le si palesa davanti sotto forma di volti distorti e “occhioni” giganti), l’istrionica performance di Christoph Waltz (costantemente sopra le righe nella sua deformazione, questa sì apertamente burtoniana, di un personaggio più vicino a Willy Wonka che a un uomo realmente esistito) e la scelta di raccontare a distanza di qualche anno da Ed Wood un’altra storia semisconosciuta, basata su personaggi di serie B (lì del mondo del cinema, qui dell’arte), reietti, stravaganti, avventurieri goffi della vita. Nel suo gioco a nascondino è come se Burton avesse deciso per una volta di riprendere un mondo diverso da una prospettiva inusuale. Il suo di mondo rimane confinato probabilmente in quei dipinti, la sua anima si specchia negli occhi giganti di quei soggetti lasciandosi per una volta soltanto alludere, annusare, percepire invece che godere appieno attraverso gli slanci onirici, visionari, conturbanti di cui essa sarebbe capace. Probabilmente anche noi per vedere il “suo” film ideale dovremmo essere dentro quei soggetti e vedere attraverso i loro occhi. Quegli occhi così grandi da riuscire a distorcere ogni più concreta rappresentazione.
(Titolo originale) Regia: Tim Burton; sceneggiatura: Scott Alexander, Larry Karaszewski; fotografia: Bruno Delbonnel; montaggio: JC Bond; musiche: Danny Elfman; scenografia: Rich Heinrichs; costumi: Colleen Atwood; interpreti: Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Huston, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Terence Stamp, Jon Polito; produzione: Silverwood Films, Electric City Entertainment, Tim Burton Productions, The Weinstein Company; distribuzione: Lucky Red; origine: USA; durata: 105’