BIG FISH

Detto fuori dai denti, la fascinazione di tanti maestri del cinema contemporaneo per Federico Fellini rimane per noi un glorioso mistero. Non è il caso di affrontare qui l’annosa questione della planetaria sopravvalutazione del regista riminese, ma quando a modi e figure felliniane si fa costante riferimento a proposito dell’immaginario di Tim Burton, solo perché in Big Fish compare un circo o una sfilata finale dei fantasmi coscienziali del protagonista, giova dire che come sempre i territori di sogno esplorati da Burton hanno quella qualità di leggerezza da inconscio ludico che costituzionalmente latita nei grevi onirismi ombelicali dell’autore di 8 e 1/2, e che per fortuna altre infatuazioni innervano le sue favole, in testa - restando sui nostri lidi - quella per Mario Bava, che a livello di invenzione surreale tanto avrebbe avuto da insegnare (e qualcosa effettivamente insegnò: ricordiamo en passant la bambina bionda di Toby Dammitt, presa di peso da Operazione paura) al cantore delle tettone e dei fenomeni da baraccone. Scusandoci per la digressione polemica (e per l’abnorme lunghezza) della frase precedente, andiamo a parlare dell’ultimo racconto burtoniano. Dove l’aedo utopico (eppure dotato di quella scaltrezza da pesce magico necessaria per guizzare e tenere a galla la propria visione nel fiume torbido del mercato hollywoodiano) della fuga immaginativa, dell’illusione come realtà intensificata, trova pane per i suoi denti nelle gigantesche balle inanellate a incastro da un suo corrispettivo quasi perfetto: l’Edward di turno, che da una smalltown provinciale sepolta nel profondo Alabama va a conquistare, a suo modo, il mondo noto ed ignoto. E nel gioco di ombre che il Rodomonte dell’affabulazione va proiettando sulla vita dello scettico figlio, che infine dovrà venire a patti con la tangibilità della materia di cui è fatta la fantasia, col mistero celato al nucleo della caleidoscopica parata di storie e immagini, che è il segreto stesso delle doti inventive di Burton. Mai così commosso come nello specchiarsi in questo “menteur en scene”, di cui ricrea il mondo (grazie anche all’apporto di un ispiratissimo Rousselot) con ammirevole sobrietà stilistica, riducendo al minimo l’apporto degli effetti speciali per stupire con un senso del meraviglioso di non riconciliata ingenuità. Candido come la distesa di asfodeli che suggella una promessa d’amore.
[febbraio 2004]
Cast & credits:
Regia: Tim Burton; sceneggiatura: John August dal romanzo di Daniel Wallace; fotografia: Philippe Rousselot; montaggio: Chris Lebenzon; musica: Danny Elfman; scenografia: Tennis Gassner; costumi: Coleen Atwood; interpreti: Ewan McGregor, Albert Finney, Billy Crudup, Jessica Lange, Alison Lohman, Helen Bonham Carter, Marion Cotillard, Danny De Vito, Steve Buscemi; produzione: Jinks/Cohen Company, Zanuck Company; origine: USA 2003; durata: 125’; distribuzione: Columbia TriStar Films Italia.
