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Bittersweet life

Pubblicato il 17 maggio 2006 da Carlo Dutto


Bittersweet life

...con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno (Ezechiele 25:17)

Vendetta vendetta terribile vendetta. Sembra essere questo il filo rosso che sempre più unisce numerosi dei film che giungono dall’ (ex) lontano Oriente: la trilogia di Park Chang-Wook, le derive crudeli di Kim Ki-Duk, pellicole dominate da un senso di tremante angoscia sull’orlo dell’abisso, in attesa dell’imminente apertura dei rubinetti del sangue. In questo filone che è ormai un neo-genere, si insinua l’ultimo lavoro del regista sudcoreano Kim Jee-woon, fautore di un cinema improntato sull’omaggio cinefilo, come ben testimonia il debutto The Quiet family (id,1998), commedia horror ricalcata sulla Congiura degli innocenti del maestro Hitch. Bitterswet life, presentato lo scorso anno al festival di Cannes, vorrebbe invece ricalcare le orme ben più promettenti del proprio precedente lavoro, il sorprendente e sconvolgente Two sisters (A tale of two sisters, 2003), che sviscera in chiave horror il rapporto tra una matrigna e le sue figliastre.

Bittersweet life è un noir d’azione, scivola nei meandri dei luoghi del crimine, illuminati da fioche lampadine economiche o allagati da piogge torrenziali, spazi vasti e sporchi come l’hangar teatro delle torture al traditore di turno; scene adrenaliniche ed epici ralenties accompagnano lo spettatore, come una carrellata, dentro la furia del protagonista Sun-woo, il quale, oltre al lavoro di copertura come solerte direttore d’albergo, risolve problemi per il boss della mala Kang. Riscossione di debiti, uccisioni mirate di boss e scagnozzi concorrenti, nessuno spazio al sentimento, lampi di una vita al massimo che si spengono quando Sun-woo riceve l’incarico più antico del mondo: controllare la ragazza del capo e punirla con la signora Morte se colta in fragranza di peccato con un amante. La mancata uccisione dei due fedifraghi innesca la spirale ascendente della vendetta della banda, in un climax che non potrà che confluire in un grande duello in un locale dall’evocativo nome di La dolce vita.

Velleità iperboliche e virtuosistiche che non riescono nell’intento di spiazzare, sconvolgere, angosciare: La vita dolceamara del titolo, illude per i primi venti minuti e delude per tutto il corso della vicenda, scemando verso un finale senza idee e vuoto come il caricatore del protagonista. Improbabili ed eterne sparatorie che rimandano a The killer nello strenuo tentativo di ricalcarne l’humor nero, con il mesto risultato di scimmiottarlo più che omaggiarlo, dialoghi che puzzano di freddi Ipse dixit calcolati a tavolino, una sceneggiatura piuttosto confusionaria che spegne nel limbo numerosi interessanti personaggi secondari. Si pesca a piene mani, è proprio il caso di dirlo a giudicare dalle scene citate, da classici della storia del cinema, ma più che omaggi ben inquadrati nella vicenda e ‘ridigeriti’ à-la Tarantino la trama sembra dover fare per forza affidamento sullo spirito cinefilo del suo spettatore, forse più attento al giochino citazionista che all’esile plot. La furia moralista del tassista veterano scorsesiano, la battuta grottesca che spezza la tensione come nei migliori John Woo d’annata, il gusto per il duello polveroso: ogni minuto di questo presunto noir si inchinano devotamente alla storia del cinema, ma non aggiungono nulla a quest’ultima, con il risultato di sembrare una rubrica della Settimana Enigmistica che dopo poco annoia. Una fotografia scintillante che esalta i chiaroscuri, scenografie molto curate ed evocative e scene d’azione improntate su una asciutta coreografia non risollevano l’inconsistenza generale che permea le due ore di visione. Neanche l’ombra di Sergio Leone nel sanguinoso finale, dominato da un montaggio che alterna nervosamente primissimi piani e totali del locale, riesce a far respirare questa pellicola completamente soffocata da un freddo virtuosismo e dalla spropositata mania di grandezza del suo regista, ben più che un mestierante, ma che aderisce a livello poco più che scolastico all’estetica tipica del genere.

[maggio 2006]

(Dalkomhan Insaeng) Regia, soggetto e sceneggiatura: Kim Jee-woon; Direttore della fotografia: Kim Ji-yong; Montaggio: Choi Jae-geun; Musiche: Dalpalan, Jang Young-kyu; Scenografie: Ryu Sung-hee; Coreografo scene d’azione: Chung Du-hong; Costumi: Cho Sang-kyung; Interpreti: Lee Byung-hun (Sun-woo), Kim Young-chul (Kang), Shin Mina (Heesoo), Kim Roi-ha (Moon-suk), Hwang Jung-min (Baek), Moon Chong-hyuk (Tae-gu), Lee Ki-young (Oh Moo-sung), Oh Dalsoo (Myung-gu); Produzione: Park Dong-ho; Distribuzione: Lucky Red; Origine: Corea del Sud, 2005; Durata: 120 min; Web info: Lucky Red

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