BLOOD DIAMOND

“Non vi è motivo di credere che gli argomenti scottanti e le storie coinvolgenti debbano essere per forza esclusivi: infatti, ognuno può alimentare l’altro!”
Edward Zwick
L’originalità e l’interesse dell’ultima fatica di Edward Zwick scaturiscono dalla precisa volontà di far coesistere, all’interno di un genere ben preciso, contrassegnato dalle dimensioni di un kolossal, due anime ben distinte e separate, che si riflettono sulle istanze narrative e rappresentative del film: quella spettacolare e quella realistica. L’enorme dispiegamento di energie organizzative e produttive, la scelta di riservare il ruolo di protagonista alla star Leonardo Di Caprio, la costruzione di un intreccio avventuroso che appassioni e coinvolga insieme alla creazione di sorprendenti effetti speciali, sono i segni che individuano il carattere spettacolare del film. All’interno di questa confezione, pulsa una sincera ispirazione realista, testimoniata dalla presenza di vari codici che strutturano i diversi livelli del film, a partire dalla fase di progettazione. Prima di imbattersi nella nuova epica di Blood Diamond, Edward Zwick ha preso visione del documentario Cry Freetown di Sorious Samura, che descrive la dura realtà della Sierra Leone alla fine degli anni Novanta, e, profondamente colpito dalle immagini e dallo spirito dell’opera, ha chiesto all’autore di collaborare alla realizzazione del film. Da parte sua, Samura ha accettato, senza alcuna riserva, di partecipare al progetto, perché coinvolto dall’appassionata vocazione documentaristica di Zwick e dalla sua esigenza di conoscere oggettivamente la situazione politica, sociale ed economica del paese devastato dalla guerra civile. Samura, inoltre, rivelerà preziose informazioni circa alcune sfumature della cultura africana, che verranno fedelmente riportate sul grande schermo: oltre ai costumi ed agli oggetti di scena, il documentarista si è preoccupato di incrementare la presenza sul set di persone che conoscevano la lingua Mende e il dialetto Krio, prodigandosi in racconti sulle esperienze vissute a fianco di mercenari, contrabbandieri e bambini-soldati.
I tre interpreti principali hanno lavorato sul proprio personaggio a partire da un comune atteggiamento “etnografico”, rafforzato dai consigli di Samura, ma vissuto in prima persona attraverso un’esperienza diretta con gli attori di quell’atroce realtà. Di Caprio, per calarsi nella parte dello spietato mercenario Archer, ha frequentato ex contrabbandieri, funzionari dell’ONG e ribelli pentiti, e spinto l’acceleratore verso un’immedesimazione di stanislavskiana memoria, acquisendo capacità d’improvvisazione nel lessico del dialetto Krio. Hounsu, figlio d’Africa, ha il suo continente nel sangue e nelle ossa e porta dentro sé la rabbia necessaria per rendere la moralità di un personaggio che non si arrende di fronte a nulla pur di riabbracciare la sua famiglia.
Come Di Caprio, anche Jennifer Connely è andata alla ricerca di fonti che potessero farle comprendere, senza filtri mistificatori, la realtà dei reporter di guerra e, dunque, è venuta a conoscenza dei tortuosi passaggi dei “diamanti insanguinati”, dalle estrazioni allo sporco mercato.
Un altro indizio rinvenuto sulle tracce del realismo di Blood Diamond riguarda la scelta delle location, situate, quasi tutte, in Africa; è interessante notare come lo scenografo Dan Weil, sulla falsariga degli attori, ma anche del regista, abbia orientato il suo lavoro a partire dalla documentazione orale fornitagli da Samura; in Sierra Leone si è svolta la maggior parte delle riprese, ma l’Africa occidentale equatoriale non aveva le infrastrutture adatte a soddisfare tutte le esigenze della produzione. Quindi la lussureggiante giungla di KwaZulu Natal, in Sudafrica, è stata il teatro dei tre set principali: la miniera di diamanti, il campo profughi e la scuola di Benjamin - il figlio rapito del pescatore Solomon Vandy –.
La sequenza più drammatica, cruda e brutale del film ha come sfondo la capitale della Sierra Leone, ricostruita, per la circostanza, sulle fondamenta della città di Maputo in Monzambico: il caos della guerra civile regna sovrano mentre i ribelli massacrano senza pietà la popolazione inerme; si trovano sotto al coprifuoco anche il cinico Archer ed il coraggioso Solomon, che tentano di sfuggire alle bombe e alle pallottole. Il giovane padre di colore uccide, con incredibile ferocia, Capitan Veleno, il rais delle milizie ribelli: il gesto violento e reiterato del personaggio, manifesta la frustrazione di una rabbia implosa da anni e diviene simbolo di una condizione universale, quella della schiavitù.
L’uso della macchina a mano, che immerge lo spettatore nello spazio rappresentato e crea spietati effetti da reportage, unitamente alla fedele restituzione delle sonorità “di battaglia”, appaiono l’ennesima conferma di una ricerca estetica che persegue precise finalità.
Ciò che maggiormente distingue il film da buona parte dei kolossal del suo genere è la complessità narrativa che prende forma dall’analisi psicologica dei personaggi – in questo senso è riscontrabile una macroscopica differenza con L’ultimo Samurai -: Danny, Solomon e Maddy non figurano affatto come i classici stereotipi delle megaproduzioni hollywoodiane, sono caratteri a tutto tondo, dotati di una umanità autentica e tangibile.
Seppure il film è osservato dal punto di vista di Solomon, l’eroe positivo, coraggioso, altruista e determinato, non esiste nel panorama delineato dalla sceneggiatura di Charles Leavitt, la manichea suddivisione tra buoni e cattivi. L’Africa stessa è un paese ricco di contraddizioni e questa sua peculiarità sembra rispecchiarsi nelle conflittualità interne ai protagonisti; tutti hanno precisi obbiettivi da raggiungere: Danny è ossessionato dalla ricerca di un diamante rosa che gli consentirebbe di lasciare per sempre il luogo in cui ha maturato i suoi sentimenti di odio, egoismo e ipocrisia verso un mondo corrotto ed ingiusto; Solomon vuole a tutti i costi ritrovare il figlio divenuto un bambino-soldato e per far questo è disposto a qualsiasi sacrificio; Maddy è alla ricerca di prove che certifichino le ipotesi di contrabbando dei diamanti e per questo motivo cerca di sottrarre quante più informazioni possibili ad Archer. La giornalista, però, in seguito all’incontro con il pescatore nero, riflette sulla moralità del suo operare: quanto sarebbe stata disponibile ad aiutare Solomon, se questi non le fosse servito per completare il suo articolo?
In un mondo fatto di violenza, avidità e miseria non c’è posto per l’amore e Zwick suggerisce, con la consueta delicatezza, come ne L’Ultimo Samurai, un affetto che nasce ma che non può esistere nel presente: alcuni sentimenti sembrano potersi completare soltanto in altri luoghi e in altri tempi.
_ Blood Diamond è l’opera più matura di un regista che pare essersi appropriato delle possibilità espressive che lo star system offre a chi entra nei suoi circuiti: l’opportunità di tracciare la propria autorialità all’interno degli obblighi di un’industria dello spettacolo.
(Blood Diamond); Regia: Edward Zwick; sceneggiatura: Charles Leavitt; fotografia: Eduardo Serra; montaggio: Steven Rosenblum; scenografie: Dan Weil; musiche: James Newton Howard; costumi: Ngila Dickson; interpreti: Leonardo Di Caprio (Danny Archer), Djimon Hounsou (Solomon Vandy), Jennifer Connelly (Maddy Bowen), David Harewood (Capitan Veleno); produzione: Paula Weinstein, Edward Zwick, Marshall Herskovitz, Graham King, Gillian Gorfil; distribuzione: Warner Bros Pictures; durata: 2h 23’ sito ufficiale
