Body - Concorso
Si ragionava, a proposito del film di Malick, di manierismo. Capita spesso, nel cinema d’autore come nel cinema di genere, di imbattersi in un’altra forma di manierismo, quella che può oscillare fra l’esplicito e voluto omaggio a qualcuno (categoria: à la manière de) e l’ambizione a essere come qualcuno (categoria: wannabe). In questa edizione della Berlinale è già accaduto di pensarlo o di segnalarlo: i tratti chiaramente herzogiani nel film della Coixet oppure un – all’avviso di chi scrive – parzialmente velleitario desiderio, nell’unanimemente apprezzato film di Andrew Haigh 45 Years, di richiamarsi, nel descrivere le dinamiche della vecchia coppia Rampling/Courtenay, a un certo Haneke, o ancora, in alcune sequenze del grande film di Larrain, echi almodovariani o addirittura buñueliani. Di fronte a Body è invece accaduto reiteratamente di pensare a Kieslowski, in primo luogo per banalissime ragioni di appartenenza linguistica e geografica – il film è in polacco e si svolge a Varsavia – ma poi anche per le figure, tutte disperatamente sole, che abitano in desolanti appartamenti piccolo-borghesi, arredati con oggetti e colori deprimenti all’interno di casermoni anonimi, persone abbigliate con capi di vestiario di straziante bruttezza e che mangiano, sempre rigorosamente da soli, cibi scarsamente appetibili e malsani. Anche la trama, forse, potrebbe essere kieslowskiana: il padre, commissario della squadra omicidi senza nome, si sforza con fatica di far fronte alle tragedie che costellano la sua vita professionale (un feto abbandonato nel gabinetto della stazione) e la figlia Olga è in piena crisi anoressica, probabilmente post-traumatica, perché la madre (moglie del commissario) è morta da non molto. I due si parlano pochissimo e la figlia detesta il padre. All’indomani dell’ennesima crisi della ragazza, che il padre trova riversa in bagno in mezzo al vomito, entra in scena il terzo e ultimo personaggio del film (la concentrazione su un ridotto numero di personaggi potrebbe anch’essa essere considerata di matrice kieslowskiana) che è una donna, rigorosamente sola, che vive insieme a un cane enorme con cui dorme (nello stesso letto!) in un appartamento per soprammercato separato dal resto del mondo da un’enorme inferriata. Di mestiere la donna fa la psicologa di gruppo, lavora con ragazze, a giudicare dall’aspetto, con problemi di anoressia, applicando strategie tipo Gestalt, le fa gridare, le fa agire i loro conflitti etc. Ma la donna che si chiama Anna, in parallelo alla sua professione, ne pratica un’altra: fa la medium. E siccome nel caso di Olga la terapia non sembra funzionare granché, ecco che alla ragazza (e anche al padre) viene proposta una seduta spiritica: se con l’ausilio della psicologia non si riesce a superare il lutto per la scomparsa della madre e l’aggressività nei confronti del padre, chissà se un contatto con la defunta non possa far miracoli. I tre ci provano per una giornata intera, ma la medium, per solito prodiga di contatti, con tanto di lettere dall’aldilà che lei meccanicamente trascrive, stavolta, forse (anche) per lo scetticismo dei membri della catena medianica, non riesce a stabilirne uno. E il film si conclude con il primo sorriso complice fra padre e figlia che si riavvicinano grazie al fallimento un po’ ridicolo della medium. È un plot piuttosto esile quello di Malgorzata Szumowska, forse sarebbe bastato per uno dei mediometraggi del Decalogo, ma il film fa davvero fatica ad arrivare ai novanta minuti. E dire che le ultime due prove della regista ci erano parse notevoli e ne avevamo parlato in precedenti edizioni della Berlinale: Elles, il film con Juliette Binoche, distrattamente passato anche in Italia, e In the name of…, il film sul prete polacco accusato di pedofilia (il tema ricorre anche in questo film, come indagine di uno dei colleghi del protagonista, piccola strizzatina d’occhio intertestuale) presentato qui a Berlino due anni fa. Qui ci pare che la regista abbia fatto un passo indietro sia in termini di complessità che di originalità di soggetto e di linguaggio.
(Body); Regia: Malgorzata Szumowska; sceneggiatura: Malgorzata Szumowska, Michael Englert; fotografia: Michael Englert; montaggio: Jacek Droslo; interpreti: Janusz Gajos (l’ispettore), Maja Ostaszewska (Anna), Justyna Suvala (Olga); produzione: Nowhere, Varsavia; origine: Polonia, 2015; durata: 90’.