Bright Star

Non c’è un’inquadratura che non stia al posto giusto in Bright Star. Non c’è mai un movimento di macchina inutile o fine a se stesso. E’ un film curato in ogni suo dettaglio, in ogni suo minimo particolare, dalla recitazione, alla fotografia, fino ai costumi. E’ sorretto da una sceneggiatura compatta, ben scritta, che non lascia al caso tutte le piccole sfumature dei personaggi, che in nessun momento si perde in dialoghi o situazioni futili o non necessarie. Può forse risultare troppo lungo ed a tratti lento, ma in realtà ogni singola sequenza, sempre separata dalla successiva con una dissolvenza in nero, costituisce una tappa fondamentale del racconto, un passo avanti nella narrazione dell’amore tra il poeta John Keats e la sua vicina Fanny Brawne, giovane studentessa di moda. La storia del sentimento che li unisce è trattata con l’eleganza e la delicatezza che da sempre contraddistinguono lo stile di Jane Campion, giunta al suo settimo lungometraggio. I loro baci appena sfiorati, le loro carezze, le loro passeggiate per i boschi inglesi, i loro abbracci sono rappresentati sullo schermo con molta dolcezza, con un tocco leggero, ma sempre in maniera distaccata, come se la macchina da presa si sentisse in dovere di non intromettersi troppo nel loro sentimento, come se la regista neozelandese non volesse entrare nel loro rapporto e volesse solo osservarla con lo stupore di chi guarda una storia d’amore d’altri tempi.
Eppure al film manca qualcosa per prendere il volo. Non possiamo affermare che a Bright Star manchi un’anima, però sicuramente quest’ultima non trapela con forza e purtroppo non presenta nulla di così originale che possa far distinguere l’opera dallo standard dei film in costume. Sì, c’è la poesia di Keats, i dialoghi costruiti sui versi dei suoi componimenti, l’arte e la vita che si contaminano vicendevolmente, ma si avverte l’assenza di quel “quid” trasgressivo, disperato, visivamente violento, cattivo, crudo che era presente nei passati lavori della Campion.
Se da una parte il distacco a cui accennavamo sopra costituisce uno dei punti di forza del film, dall’altro diventa anche uno dei motivi per i quali Bright Star non arriva fino in fondo al pubblico. L’anima dell’opera rimane infatti strozzata dalla splendida cornice estetica e lo spettatore fa fatica a raggiungere il vero cuore del racconto. Solo nel finale, o meglio nell’ultima inquadratura, Jane Campion ci immerge nel sentimento disperato della protagonista, ma è ovviamente troppo tardi per potersi affascinare totalmente per ciò che risiede dietro l’apparenza della rappresentazione.
Gli elementi del film che rimangono sono sicuramente gli straordinari versi di Keats, la perfetta costruzione scenica delle situazioni in interni, il pregevole studio delle inquadrature – è evidente che la regista si sia ispirata all’arte pittorica romantica per il modo in cui fonde personaggi e natura - , e l’eccezionale interpretazione di Abbie Cornish, la quale in molti frangenti ricorda per bellezza e bravura Nicole Kidman.
Dopo sei anni di inattività, e soprattutto dopo un’opera non di certo riuscita come In the Cut, ci aspettavamo qualcosa di più dalla regista neozelandese, ma in ogni caso fa sempre piacere poter apprezzare la classe della sua estetica cinematografica.
(Bright Star) Regia: Jane Campion; sceneggiatura: Jane Campion; fotografia: Greig Fraser; montaggio: Alexandre De Franceschi; interpreti: Abbie Cornish, Ben Whishaw, Paul Schneider, Kerry Fox; produzione: Bright Star Films Ltd, Jan Chapman Productions PTY LTD; distribuzione: Pathè Distribution; origine: Regno Unito; durata: 120’.
