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Britannica – Sherlock

Pubblicato il 2 marzo 2011 da Marco Di Cesare


Britannica – Sherlock

Ponendosi di fronte a questa miniserie della BBC One il problema risiede tutto nel cercare di capire quanto sia stata approfondita l’opera di rinverdimento del sempiterno personaggio creato da Sir Arthur Conan Doyle, al fine di comprendere se tale rilettura sia stata o no superficiale e fine a se stessa oppure se abbia portato una ventata di freschezza all’interno dell’universo holmesiano.
Tale appassionante prodotto, trasmesso la scorsa estate sul network britannico e giunto da noi in questi giorni grazie a Joi, segue di pochi mesi l’ingresso in scena della versione cinematografica di Guy Ritchie, quest’ultima un po’ fedele e allo stesso tempo alquanto traditrice del più famoso detective d’Inghilterra. E, seppure si narri che le due idee di un riadattamento ’moderno’ delle gesta dell’eroe conandoyliano siano nate indipendentemente e inconsapevolmente l’una dall’altra, non si può non metterne in relazione i risultati. Giacché in entrambi i casi si tratta del tentativo di riammodernamento di una figura assai radicata nell’immaginario comune; una figura che - giova ricordarlo - da sempre è stata letta e un po’ tradita, in letteratura come in teatro, in televisione come al cinema.
Così, mentre la pellicola anglohollywoodiana di Ritchie ha spesso spostato l’attenzione sull’azione più pura e sull’ironia, tra l’altro rifacendosi anche al mondo urbano pullulante di umanità derelitta e outsider che richiama altre opere del regista britannico, diversamente la miniserie della BBC è più tradizionale e rispettosa nei confronti della tipica rappresentazione di Sherlock Holmes. I due autori, Steven Moffat e Mark Gatiss (entrambi scrittori per Doctor Who, con il primo creatore anche di Jekyll, sequel ambientato ai nostri giorni tratto dal romanzo di Stevenson), si sono però presi la libertà di spostare l’azione nella Londra contemporanea. In tale modo si è potuto realizzare un parallelo tra il primigenio universo letterario e quello reale e odierno, dando vita a un piccolo ma perdurante cortocircuito di rimandi: si pensi al Dottor Watson, reduce della Guerra in Afghanistan, nell’Ottocento come nel Duemila, che ha riportato con sé una zoppia che Holmes prontamente e giustamente considererà come psicosomatica, un fardello del quale liberarsi. Un po’ come dovrebbe succedere ai limiti imposti dalla ragione comune, intralcio contro cui lotta il genio dell’individuo che sa pensare diversamente dagli altri. E proprio l’aspetto più mentale e intellettuale sa risaltare appieno nella miniserie, laddove il gioco deduttivo è più presente rispetto al film, seppure senza causare insufficienza per quanto riguarda la pura azione, così come l’ironia; in più vi è un forte senso del dolore che pervade i casi esaminati, dove anche il carnefice è un po’ vittima, marionetta fra le mani di un potere oscuro. E, perciò, ancor più in questo modo viene esaltato il rapporto tra la misantropia di Holmes e il suo modo di vedere l’esistenza umana. E qui non può non venire in mente Dr. House (ovviamente rammentando come già in principio il capolavoro del medical drama si rifaccia al giallo deduttivo di Conan Doyle), ossia la messa in scena della sofferenza, fisica e psichica, da osservare e sezionare scientificamente, oltre che da provare su di sé. Allo stesso modo il rapporto tra Gregory House e James Wilson richiama quello tra il detective e il suo assistente Watson: due personaggi che in Sherlock sono restituiti da Benedict Cumberbatch e Martin Freeman tramite una pregevole alchimia. E il loro rapporto più volte da altri personaggi viene ironicamente visto come un legame omosessuale, considerazione che con un certo imbarazzo i due smentiscono sempre.
Tali elementi mostrano come Sherlock abbia messo in atto una continua rilettura dell’universo conandoyliano, indubbiamente filtrato attraverso una sensibilità e una ricchezza contemporanee e qui restituito mediante una certa abilità compositiva (il primo e il terzo episodio sono stati diretti dallo scozzese Paul McGuigan di Slevin e Push, il secondo da Euros Lyn), accompagnata da una forte cura per il dettaglio che diviene la forma grazie alla quale si esplicita la scrupolosa attenzione con cui Holmes esplora quanto gli sta intorno. E, difatti, lo schermo viene inciso da continui segni grafici (testi di sms, i tracciati di un inseguimento tra le strade di Londra), sovraimpressioni che divengono esempi della tecnologia moderna (che Holmes e Watson, uomini del Duemila, non disdegnano per nulla), portatrice di un dinamismo che viene tuttavia messo al servizio del pensiero più puro.


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