Push

È come un gioco, l’ultimo film di Paul McGuigan, già creatore di Slevin (su Close-Up le recensioni della pellicola e del dvd): un paio di stagioni dopo avere architettato una presa in giro non solo contro un genere, ma contro le stesse aspettative del pubblico, organizza una messa in scena dove una spy-story viene incastonata sullo sfondo di un thriller fantascientifico ricco di azione. Ma anche di molta ironia.
Hong Kong. Sono molti anni che la Division, un’agenzia governativa americana, sta conducendo esperimenti su individui dotati di straordinari poteri psichici, cercando di potenziarne le doti attraverso l’uso di droghe, col fine di dare vita a un esercito dalla potenza mai vista. Peccato che mai nessuno abbia fino ad allora superato tali esperimenti, almeno fino a Kira Hudson (Camilla Belle), una Pusher, ovvero una persona capace di entrare nelle mente degli altri per convincerli di avere vissuto esperienze che, invece, non appartengono loro, fino a portarli a comportarsi in modo tale da toccare l’autolesionismo più estremo. Però la sopravvissuta riuscirà a fuggire. Anche il capo della Division è un Pusher: si tratta del pericoloso Henry Carver (Djimon Hounsou), che varie volte ha ucciso per difendere l’agenzia. Tra le sue vittime, dieci anni prima, vi è stato anche un Mover, padre di un ragazzino che ora è diventato un giovane uomo che si nasconde nei vicoli di Hong Kong: Nick Gant (Chris Evans), il quale dal genitore ha ereditato la capacità di spostare gli oggetti con la sola forza della mente. Qualità che, però, non è ancora riuscito ad affinare quel tanto che gli basti per non perdere soldi su soldi nel gioco ai dadi coi malavitosi locali. Un giorno verrà trovato da una giovanissima Watcher, Cassie Holmes (Dakota Fanning), una veggente che gli chiederà di aiutarla a trovare una valigetta con sei milioni di dollari.
Nella trama è facile ritrovare rimandi a Fury e a Scanners, punti di partenza d’autore per le tematiche principali presenti in Push: la paranoia, il potere della mente e la manipolazione, la solitudine (quest’ultima legata alla pellicola di De Palma). Ma qui si nota soprattutto una evidente ironia legata al gioco cinematografico, dove la sintassi è caratterizzata da continui colpi di scena. Ironia che intacca caratteristiche presenti nell’odierno cinema dei supereroi con problemi più o meno super, donando loro aspetti molto più umani, in una ambiente sospeso tra realtà e irrealtà, in un futuristico presente, dove a corridoi e a vicoli claustrofobici si contrappone la verticalità di certe costruzioni, in una Hong Kong dove si incontrano Oriente e Occidente, la cinematografia d’azione statunitense con quella orientale, come in un ritorno della Hollywood di oggi nel luogo dal quale è nata.
Per buona parte del film non vi è un vero protagonista, mentre quello che sembrerebbe maggiormente demandato ad assumerne il ruolo, solo dopo un percorso di crescita caratteriale e mentale e dopo vari colpi presi direttamente sul viso, riuscirà a guidare il gruppo, grazie ad abilità totalmente legate alla capacità di ragionamento, aggiungendole alla iniziale fisicità e divenendo una inscindibile unità da oltreuomo, come se la verticalità riuscisse a vincere sull’oppressione (in effetti l’ultima scena è ambientata in una posizione assai elevata).
Il tempo che scorre è alla base della pellicola, che procede per accumulazione di frammenti l’uno di seguito all’altro, in preda a un incessante vorticismo che aumenta mentre la trama si fa sempre più complicata, come in un noir: come se la suddivisione diventasse sempre più infinitesimale, tanto da perdere di vista l’obiettivo finale, provando piacere più per il presente continuo che per l’aspettativa di un futuro. E l’intera operazione è sintetizzabile attraverso una delle inquadrature iniziali: quella che segue una pallina scorrere nei meandri della sede della Division, evitando ostacoli e divenendo così essa stessa fondamentale per lo svolgersi del racconto. Una continuità a tappe che si dimena tra imprevisti di ogni tipo, che procede nonostante la loro presenza, finanche prendendosi beffardamente gioco di loro. Una sequenza di momenti frammentati: come frammentate sono le vite dei protagonisti, le loro psicologie appena abbozzate e che non vogliono descrivere un arco completo, personaggi sradicati come se appartenessero a un romanzo per l’infanzia. Giovani rimasti da tempo orfani e ragazzine in cerca di una madre tenuta in ostaggio dai cattivi: il gruppo come rifugio per l’unione di solitudini, frammenti che insieme creano una unità forte e indivisibile. Protagonisti di una realtà che deve essere compresa nelle sue schegge quasi impazzite, nei suoi particolari che costituiscono le fondamenta di un insieme che, altrimenti, potrebbe sfuggire da sotto gli occhi e scivolare via fra le mani, in un mondo dove ben poco è come appare. Una reale irrealtà dove uno Shift può trasformare l’aspetto di qualsiasi oggetto a piacere – anche se non a lungo – dove gli Shadow possono schermare tutto quello che vogliono, dove gli Wiper possono cancellare la memoria altrui, dove il grido dei Bleeder può rendere in frantumi il vetro e il cervello delle loro vittime, o le mani degli Stitch possono ricostituire l’unità perduta di un corpo e dare vita così a un nuovo inizio, oppure condannarlo alla morte definitiva.
(id.); Regia: Paul McGuigan; sceneggiatura: David Bourla; fotografia: Peter Sova; montaggio: Nicolas Trembasiewicz; musica: Neil Davidge; interpreti: Chris Evans (Nick Gant), Dakota Fanning (Cassie Holmes), Camilla Belle (Kira Hudson), Djimon Hounsou (Henry Carver), Cliff Curtis (Hook Waters); produzione: Infinity Features Entertainment e Icon Productions; distribuzione: Eagle Pictures; origine: USA, 2009; durata: 110’; web info: il blog ufficiale.
