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Bruno Ganz

Pubblicato il 17 febbraio 2019 da Matteo Galli


Bruno Ganz

Per chi, già negli anni del liceo (era la seconda metà degli anni ’70), decise di seguire la propria passione per il mondo tedesco, di studiarne la ricchezza e le contraddizioni – all’epoca non c’era, almeno in Europa, un paese che mostrasse altrettanto apertamente le proprie ferite – la morte di Bruno Ganz si configura quasi come un lutto personale. Erano esattamente quelli gli anni in cui uscirono - anche in Italia - i film che lo resero celebre. Forse il primo che vidi fu la memorabile trasposizione cinematografica della meravigliosa novella di Heinrich von Kleist La Marchesa di O (1976) con Bruno Ganz nel ruolo del diabolico/angelico conte F, pieno di pallori e di rossori. L’anno dopo, nel 1977, fu la volta di un altro film, ancora oggi, di culto ossia L’amico americano di Wim Wenders, il regista che dieci anni dopo gli offrirà forse il ruolo più celebre al cinema, quello dell’angelo Damiel che vuole smettere di esser spettatore di un mondo grigio, che vuole sentire la vita, sentire gli odori e i sapori, che vuole morire. Come ha detto stamani Dieter Kosslick nella sua ultima conferenza stampa, oggi il cielo sopra Berlino si è fatto azzurro e dolcemente primaverile, per accogliere Bruno Ganz, forse il più importante attore di lingua tedesca dal 1945 a oggi, al cinema come a teatro. Prima di tutto a teatro. Del resto Bruno Ganz dal 1996 era il titolare dello “Iffland-Ring”, il riconoscimento che viene assegnato all’attore teatrale ritenuto il più grande di tutti, un anello che si porta per tutta la vita e che verrà ceduto, a morte avvenuta, all’attore che il proprietario avrà designato. Fra qualche giorno sapremo chi è.

Dopo poche apparizioni minori al cinema e in tv, la notorietà di Bruno Ganz è tutta dovuta al teatro. In un’epoca davvero altra, ricordo, come se fosse oggi, sarà stata RaiDue, la messa in scena del Principe di Homburg con la regia di Peter Stein, sempre di Heinrich von Kleist, con Ganz nel ruolo di protagonista, qualunque altra messa in scena vista successivamente a teatro oppure al cinema finiva per essere letteralmente schiacciata da questa interpretazione, Bruno Ganz sembrava nato apposta per interpretare quel ruolo, con quella impareggiabile mistura di sonnambulismo e risolutezza, di grazia e stupore. La messa in scena, risalente al 1972, era la quinta nata dalla collaborazione del regista Peter Stein con Bruno Ganz, sul palcoscenico del più importante teatro di Berlino Ovest, all’epoca si chiamava “Schaubühne am Halleschen Ufer”, successivamente (dal 1981) avrebbe cambiato sede e si sarebbe chiamata “Schaubühne am Lehniner Platz”. I due avevano esordito insieme con un altro spettacolo celeberrimo il Torquato Tasso di Goethe, ma gli spettacoli allestiti con Stein regista e Ganz protagonista sono tutti memorabili: Peer Gynt di Ibsen e I villeggianti di Maxim Gorki da cui poi lo stesso Peter Stein trasse un film. Erano gli anni in cui la “Schaubühne am Halleschen Ufer” teneva a battesimo tutti gli attori teatrali e cinematografici più importanti della Germania Federale, istituendo un nuovo stile di recitazione basato su un anti-retorico understatement post-brechtiano assolutamente inimitabile: Jutta Lampe (la sorella giornalista di Anni di piombo), Angela Winkler (Katharina Blum, la madre di Oskar nel Tamburo di Latta, Otto Sander (l’angelo che resta in cielo nel film di Wenders), Edith Clever (l’interprete della Marchesa di O.). Ganz fu anche il primo interprete (guidato da Stein o da altri registi teatrali assai celebri come Claus Peymann, Klaus Michael Grüber e Luc Bondy) delle opere teatrali di drammaturghi all’epoca emergenti come Peter Handke e Botho Strauss. Con Peter Stein, dopo molti anni di separazione, Ganz tornerà a recitare nel 2000: i tedeschi lo chiamano Lebenswerk, opera di una vita, l’intero Faust di Goethe, durata complessiva 22 ore, lo si trova online e in DVD.

Nei trent’anni fra il Torquato Tasso e il Faust, Bruno Ganz, pur non avendo mai abbandonato il teatro (la prima volta che l’ho visto dal vivo era al “Berliner Ensemble” e recitava poesie di Hölderlin), è divenuto un attore-icona del nuovo cinema tedesco prima e del cinema internazionale poi. Oltre ai film già citati, quelli con Rohmer e con Wenders, il cinema tedesco lo ricorderà per il remake di Nosferatu con Isabelle Adjani e Klaus Kinski, sotto la regia di Werner Herzog (1979), La donna mancina (1976) il primo film girato da Peter Handke, Il coltello nella testa (1978) di Reinhard Hauff e L’inganno (1981) di Volker Schlöndorff. Dei grandi autori del Nuovo Cinema Tedesco il solo Fassbinder, fra gli autori che consacrarono anche al pubblico internazionale, non ha mai girato film con Bruno Ganz, tutti gli altri sì.

Ma il cinema tedesco lo ricorderà anche per i ruoli interpretati dopo la sua stagione migliore, uno fra tutti il ruolo di Hitler ne La caduta nel 2004; fino da ultimo, tuttavia, nel cinema tedesco ha recitato ruoli memorabili, per esempio quello del patriarca nel film del 2017, tratto dal romanzo In tempi di luce declinante di Eugen Ruge, semplicemente perfetto, peccato che il film non sia mai arrivato in Italia. Fu, in conferenza stampa, la seconda e ultima volta che lo vidi dal vivo.

Ganz ha interpretato moltissimi ruoli, grandi e piccoli, anche nel cinema internazionale, dagli anni ’80 in avanti, fra i più belli che ricordo Dans la ville blanche di Alain Tanner ambientato a Lisbona (1983) e L’eternità è un giorno di Theo Angelopoulos (1998); da ultimo con Lars von Trier in The House that Jack Built (2018) ha interpretato Virgilio.

Negli ultimi anni oltre a dedicarsi a ruoli non memorabili come Tiziano Terzani ne La fine è il mio inizio (2010) e il nonno in Heidi (2015), ha saputo ritagliarsi anche piccole e deliziose parti come quella di un sordido boss serbo nell’esilarante In ordine di sparizione di Hans Petter Moland (2014) e il tedesco new age nel Kammerspiel The Party di Sally Potter (2017).

Forse non tutti sanno che Bruno Ganz era svizzero (era nato a Zurigo nel 1941), forse non tutti sanno che sua madre era italiana. E in Italia e in italiano ha girato abbastanza spesso: ha girato con Mauro Bolognini (La vera storia della signora delle camelie, 1981), due volte con Giuseppe Bertolucci (Oggetti smarriti, 1981 e La domenica specialmente, 1991) e persino con Alberto Sironi nella fiction su Fausto Coppi (Il grande Fausto), interpretando il talent scout Biagio Cavanna. Ma il ruolo in Italia e in italiano che ricorderò per sempre è quello di Fernando Girasole, cameriere islandese a Venezia. Intere citazioni a distanza di quasi vent’anni le conosco ancora a memoria: “L’apparenza la penalizza”, “Intenderei calare negli Abruzzi”. La più memorabile di tutti: quando nella balera veneziana, dopo aver recitato a memoria intere ottave dell’Orlando Furioso, ricorda a Rosalba che un tempo faceva il cantante da crociera. Poi, vestito con un’improbabile camicia grigiastra a fiorami, indica col dito un uomo in giacca bianca sul palco, di spalle, quindi aggiunge “E lui era il mio faro”. L’uomo sul palco si gira, e Don Backy attacca a cantare Frasi d’amore. Poi Licia Maglietta e Bruno Ganz si mettono a ballare.

Leb’ wohl Bruno Ganz, mit ganzem Herzen!


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