Buongiorno, notte: La Callas, Moro e Dalì

Per Buongiorno, notte Bellocchio ha scelto il piano della storia “interna”, inventata e anche immaginata, l’ucronia: quello che avrebbe potuto essere e non è mai stato, Moro libero, la salvazione. Ma si tratta per caso della storia dei libri di storia, della storia collettiva o della coscienza nazionale, quella rappresentata nel film? Costruire la storia dentro una casa-intestino lasciando all’esterno, eccetto che nell’episodio del pranzo di ex partigiani, solo dettagli marginali: il pettegolezzo di una vicina, l’esercito ‘medio’ dei ministeriali. Il giudizio sui brigatisti è chiaro, quello sull’italietta sordida, estranea, fifona e qualunquista pure. Dunque un film nel quale la fedeltà a luoghi e situazioni è fino a un certo punto maniacale. Come un modellino, come una perizia non ha mai lo scopo di rivedere i termini esatti di quella vicenda ma di riattivare in quei personaggi un dramma e un pensiero dell’esistenza che sono dell’autore stesso, rivolti a quei personaggi e a quelle situazioni. Come raramente (e fortunatamente) avviene, di questo film non si può dare un giudizio sicuro, che si possa ricavare in base a ragioni di gusto. Tutt’al più lo si può paragonare al suo precedecessore, L’ora di religione, per il modo di disporre i contenuti, quest’ultimo su un piano individuale tendente a un paradossale lirismo; il primo su uno più arduo, sociale e collettivo. È un nuovo Bellocchio, fluido anche se meno aperto alla bizzarria e a tratti incerto. Ma ora, più che ne L’ora di religione, il fiume che scorre sotterraneo alle situazioni gorgoglia di più. Non si tratta semplicemente di una immagine, c’è qualcosa che urge di venire fuori. Come in un dramma pirandelliano, qualcosa si insinua e il protagonista la vive e nello stesso tempo la nasconde con pudore. Questa materia interna è fatta di musica, e ciò è talmente evidente che il film si potrebbe immaginare impiantato per la scena, come un’opera, con il tenore, il baritono e lei, la protagonista, a fare il soprano che esplode tragicamente nell’epilogo. Per buona parte del film scorre una partitura interna che non è mai un contrappunto, basti pensare a quel potentissimo sibilo che proviene dalla mente della protagonista quando si accorge che il rapimento è andato a segno. Bellocchio si è contraddistinto nel suo esordio con film contenenti grandi messaggi, questi nuovi sono trasformati in segni profondi non meno efficaci. È questo livello interiore a contare nel film, non la storia. Il punto di svolta di questa tendenza è il Barone von Homburg dove ancora albergano strutture metaforiche classiche nella definizione dell’inconscio. Oggi per Bellocchio è la possibilità di plasmare questo senso e calarlo all’interno della storia di cui si è già tracciato un bilancio. In questa pianificazione di intimità e collettività, Marco Bellocchio sembra affine alla poetica di Michael Mann. A migliaia di chilometri uno dall’altro sconosciuti, sono grandi scompaginatori di generi e fantocciate filmiche: ci fanno vedere ugualmente che l’immagine è sempre la cosa più grande e importante da inseguire. Autori che riflettono su loro stessi e sul loro tempo dando indicazione precisa su cosa si può ottenere senza barattare il loro mestiere con la cronaca.
[23 settembre 2003]
