Cafarnao - Caos e Miracoli

A un anno di distanza dalla presentazione al Festival di Cannes dove ottenne una standing ovation che durò più di un quarto d’ora vincendo poi il premio della Giuria (oltre a quello della Giuria Ecumenica), il terzo film della regista libanese Nadine Labaki (Caramel, E ora dove andiamo?) Capharnaüm arriva finalmente nelle sale italiane, dopo essere entrato nella cinquina dei Golden Globe e degli Oscar per il miglior film straniero, ma con Roma in lizza quest’anno era dura. Giusto così, perché il film, distribuito da Lucky Red con il titolo Cafarnao – caos e miracoli, è sicuramente un buon, in alcuni momenti un ottimo film, ma non è un capolavoro, come lo è invece il film di Cuarón. Il titolo italiano fa riferimento a due ordini di significato: il primo e più celebre allude alla città della Galilea dove Gesù iniziò la predicazione compiendovi appunto numerosi miracoli, l’altra accezione significa, in arabo moderno, per l’appunto caos. In questo film dalla gestazione lunghissima (quattro anni fra concezione, sceneggiatura e riprese, due anni per il montaggio, anche perché – così si legge- erano state girate niente meno che 520 ore di materiale), Nadine Labaki ha cercato di tenersi in equilibrio fra le due principali aspirazioni etico-estetiche a cui ha inteso fare fronte: da un lato girare un documentario sui bambini migranti che vivono in Libano al di sotto di qualsiasi soglia di legalità in una costante e defatigante lotta per la sopravvivenza, dall’altro costruire una storia evidentemente fictional intorno a un case study, “interpretato” dai bambini (e dagli adulti) essi stessi al centro della vicenda. La storia è stata girata a Beirut e dintorni, e consta 1) di una cornice che di fatto è un piccolo court movie: un ragazzino si ritrova per la seconda volta in un’aula di tribunale (ha già subito un processo e una condanna a cinque anni per accoltellamento), viene adesso patrocinato da una avvocatessa (che è la stessa Labaki), perché ha deciso di fare causa ai genitori sostanzialmente per averlo messo al mondo, una scelta drammaturgica, diciamolo fin dall’inizio, che convince fino a un certo punto; 2) di una serie di flash back, in ordine cronologico in cui ci viene spiegato come si sia arrivati a questa decisione inaudita da parte del ragazzino che risponde al nome di Zain, che è poi anche il nome del giovane “attore” che lo interpreta. I flash back, dal canto loro, sono divisi sostanzialmente in due parti: a) una prima parte che sembra ambientata più verso il centro della città ma comunque in un quartiere e soprattutto in una casa assai degradata, dove una famiglia composta di due genitori e nove figli vive ammassata in un’unica stanza e dove i bambini, almeno i più grandi, praticamente sono gettati in strada a vendere ogni possibile mercanzia al fine di contribuire al magro reddito famigliare (cosa invece facciano madre e padre, a parte gridare e – appunto – fare figli, peraltro non è mai dato saperlo). Fin da subito l’attenzione della macchina da presa, in continuo e incessante movimento e quasi sempre ad altezza di ragazzino, si concentra su Zain e sulla sua speciale relazione con la prima delle tante sorelle, l’undicenne Sahar che non appena raggiunta l’età dello sviluppo (che il fratello invita per quanto possibile a mascherare) viene venduta dai genitori a un sordido negoziante del quartiere che le ha messo gli occhi addosso. Con tutte le conseguenze che ci possiamo immaginare, anzi ancora peggio; b) una seconda parte in cui Zain fugge di casa salvo poi riparare negli slum ancor più sordidi a pochi chilometri della capitale; qui entra in contatto con una profuga etiope senza permesso di soggiorno e il figlioletto di un anno, di cui di fatto Zain diventa il padre putativo/fratello maggiore passando tutto il tempo con lui mentre la donna lavora e poi, dopo che la donna è stata arrestata, sostituendosi a lei in tutto e per tutto. È decisamente questa la parte più riuscita del film, quella dove in modo apparentemente miracoloso (Cafarnao!) Zain, in grazia delle competenze sociali relazionali ed emotive sviluppate, sviluppa una incredibile creatività per garantire a sé stesso e al piccoletto la sopravvivenza prima nella catapecchia dove abita(va) la madre e poi in giro per la città con un carrettino rudimentale, immagini di epica e tremenda icasticità. Ma anche gli sforzi titanici di Zain non bastano. I due sono costretti a separarsi per ragioni di forza maggiore, Zain scopre che fine ha fatto la sorella, si vendica e finisce in galera. Quel che da qui in avanti succede fino a chiudere il cerchio e anche dopo che il cerchio è stato chiuso è forse la parte più debole del film: la regista ha deciso che dopo le decine di cazzotti nello stomaco inferti allo spettatore nell’arco di poco meno di due ore, la conclusione doveva essere positiva e dunque tutto il finale è all’insegna di speranze e ricongiungimenti che però finiscono per stonare, proprio perché consolano troppo rispetto alla spietatezza irredimibile mostrata fin qui. Ciò malgrado si tratta di un film importante con uno stile severo, due giovani "attori" semplicemente pazzeschi, che andrebbe fatto vedere nelle scuole e che cerca di porre domande antropologico-metafisiche anche superiori (più volte viene in mente il celebre adagio sofocleo: “Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti”) sia a Lion e a The Millionaire a cui pure è stato paragonato e che si situa, pur con esiti alterni, sul sottile discrimine fra realismo documentario e feel good movie, o come ha detto una critica tedesca, con tono ben più polemico e spietato, fra “dramma autentico” e “calcolata pornografia della miseria”. Ma interrogarsi sulla pornografia della miseria e sulla pornografia del dolore sarebbero discorso oltremodo complesso che in fondo potrebbe valere anche per la foto di John Moore appena premiata come migliore foto dell’anno.
(Capharnaüm); Regia: Nadine Labaki sceneggiatura: Nadine Labaki, Jihad Hojally, Michelle Keserwany, Georges Khabbaz, Khaled Mouzanar; fotografia: Christopher Aoun; montaggio: Konstantin Bock; interpreti: Zain Al Rafeea (Zain), Yordanos Shiferaw (Rahil), Boluwatife Treasure Bankole (Yonas), Kawsar Al Haddad (Souad), Fadi Yousef (Selim), Cedra Izam (Sahar), Nadine Labaki (l’avvocatessa di Zain) produzione: Boo Pictures, Mooz Films Cine origine: Libano, Usa, Francia; durata: 123’.
