Caino dei Valdoca

Sono forse io il custode di mio fratello? È il grido del Caino della Genesi, chiamato a rispondere delle azioni di Abele.
Sussurrato, depotenziato, asciugato di ogni livore contro la divinità, è il lamento di Danio Manfredini che presta la sua voce e i suoi passi al Caino del Teatro Valdoca. Non è questo il primo atto di affermazione “consapevole” dell’essere umano? In questa frase Caino è già lontano dal Paradiso terrestre, è fuori dalle delizie della salvezza. E’ già un uomo come tutti noi, senza nessuna idea di prossimo, senza alcuna appartenenza, solo con la sfrontatezza del suo imporsi sul mondo.
Con l’ultima fatica, il duo Cesare Ronconi alla regia e Mariangela Gualtieri al tessuto narrativo, ci lasciano un affresco corale e intenso tutto incentrato sull’enigma del male, il misterium iniquitatis, vissuto- parole della poetessa - come un “mare così oscuro, entusiasmante e pericoloso in cui immergersi, un fondale in cui non possiamo non indagare, anche se non siamo capaci dell’immensa apnea che richiede”.
Un tema, quello del fascino del male, su cui la Gualtieri non intende pronunciare alcuna parola definitiva, perché chi ha creduto di possederla ha troppo spesso seminato dolore.
Il testo della Gulatieri è un balbettio, allora, appena oltre il limite dell’afasia. Uno studio durato due anni, per creare una partitura scenica che si intrecciasse alle liriche umane, troppo umane di un Caino che è una figura errabonda, cogitante, muta, mai sazia, a cui presta corpo un Danio Manfredini perfettamente in bilico tra ombra e luce.
Ma chi è questo Caino? Un fratello mal riuscito, un figlio degenere, in cerca d’amore, che rifugge la quiete della camera per gettarsi a secchiate nella notte. E’ lo sguardo di pietas posato sul primo uomo creato da una donna che ci porta a riflettere e a rifletterci in questa figura scultorea, priva di tutti gli stereotipi cuciti addosso dai testi biblici, Caino non violento, Caino che percorre con passo appesantito dalla sua terrestrità il proscenio, Caino che rinuncia alla vita stanziale per la sete di conoscenza.
Così, come un Prometeo cristiano, è l’iniziatore della civiltà, colui che può considerarsi a tutti gli effetti il progenitore dell’uomo moderno, da cui si fa discendere una stirpe nata dal sangue e con il sangue, che ha originato la prima vera rivoluzione tecnologica: ha affermato il predominio dell’intelligenza sulla natura.
Una parabola che scavalca l’ideale armonioso di uomo immerso nella natura benigna, per diventare spinta incontenibile all’azione, impulso alla distruzione fuori e dentro di noi.
Caino è già lontano dal sovrannaturale, dal tema celeste di una realtà sovrasensibile. Più che emblema di un’umanità capace di muovere il sole e le altre stelle, Caino pare rimanere schiacciato dalle sue stesse ombre.
Sembra quasi di vederlo, il buco che cresce nel petto, quella mancanza con cui nasciamo tutti, quella tempesta che ci scuote i capelli e ci fa curvare la schiena.
La scrittura scenica sceglie il registro dell’opposizione: al Caino di nero vestito si contrappone la figura del seduttore/illusionista Lucifero, vestito in tunica bianca; alla gravità dei movimenti di Caino si contrappone la levità dell’Angelo; alla forza oracolare dei versi pronunciati al microfono da Caino, di contro, viene opposta la mancanza di parole di Abele, inerme nel suo ruolo di vittima.
A volte la sensazione è di un non perfetto allineamento tra le azioni in scena e la Parola della Gualtieri, come se qualcosa nell’ingranaggio di senso tra testo e scena fosse inceppato. Ma l’indagine poetica, il fermento artistico derivante dal rincorrere un’icona culturale fondativa della condizione umana come Caino è autentica e tenace.
E quel canto finale che chiude la caduta muta a cui abbiamo assistito per tutto lo spettacolo, la caduta di Caino che è la storia dell’uomo, è veramente lancinante.
Viene quasi da dire: caro Abele, guai a chi mi tocca Caino.
Regia: Cesare Ronconi; testo: Mariangela Gualtieri; attori: Danio Manfredini (Caino), Raffaella Giordano (l’Angelo), Mariangela Gualtieri (il narratore), Leonardo Delogu (Lucifero), Coro (Susanna Dimitri, Giacomo Garaffoni, Sara Leghissa, Isabella Macchi, Silvia Mai, Enrico Malatesta, Daria Menichetti, Mila Vanzini); luci e scene: Cesare Ronconi; costumi: Daniela Fabbri, Sofia Vannini; produzione: Teatro Valdoca con il sostegno di Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Emilia Romagna Teatro Fondazione - Teatro A. Bonci di Cesena.
In scena al Teatro Palladium di Roma dal 10 al 12 febbraio 2011
